Ho visto più volte l’amico Francesco Militello Mirto cimentarsi a bordo delle navi e degli aeromobili della Marina per documentarne egregiamente l’attività, operando come se fosse parte integrante di quegli equipaggi, con la stessa passione, lo stesso entusiasmo e lo stesso sale nelle vene di un pilota navale. Colgo pertanto con soddisfazione l’opportunità che Francesco mi ha offerto per raccontare su EmmeReports, in più puntate, qualche avventura della mia carriera, che ho concluso con il grado di Ammiraglio di Squadra il 15 luglio del 2021, nell’incarico di Comandante in Capo della Squadra Navale. Essendo un irriducibile operativo non potevo terminare la mia vita in Marina in modo migliore, ossia al vertice di una formidabile realtà operativa costituita da circa 18.000 persone distribuite in varie strutture di comando, impiegate a bordo delle navi, degli elicotteri e degli aerei, nonché presso la Brigata Marina San Marco e i centri di addestramento.
Comincerò raccontandovi della mia transizione sui jet, iniziata dopo aver accumulato circa 2000 ore di volo sugli elicotteri, gran parte delle quali effettuate come pilota navale sugli AB-212 imbarcati e, dopo il mio primo comando navale, nel grado di Tenente di Vascello, svolto sul Cacciamine Milazzo, che porta il nome di una splendida località siciliana.
La transizione iniziò negli USA, presso la Naval Air Station di Meridian, nel Mississippi, con il velivolo T-2 Buckeye della North American Aviation, dalle forme tondeggianti. Era un perfetto addestratore e lo si poteva avvitare nelle spirali più violente per imparare a venirne fuori, contromanovrando… anche se la cosa più semplice da fare era di mollare i comandi, perché ci avrebbe “pensato” lui a raddrizzarsi. Dell’addestramento sul T-2 mi piace ricordare in particolare la Carrier Qualification, ossia l’ambita qualificazione all’atterraggio sulla portaerei, che nel gergo degli Aviatori Navali si chiama “appontaggio”.
L’attività era preceduta da uno specifico addestramento su terra, con l’aiuto dell’istruttore, mirato a far acquisire al pilota la capacità di atterrare in modo duro e deciso in un punto prestabilito della pista di atterraggio, con la massima precisione. Superata questa fase si era pronti per spiccare il volo verso la portaerei e peraltro era previsto andarci da soli, senza istruttore. Tale prassi era stata adottata sulla base di evidenti elementi statistici dai quali risultava che, in caso di errore dello studente, l’istruttore non sarebbe riuscito ad evitare la catastrofe… quindi tanto valeva risparmiare la vita dell’istruttore e mandare lo studente da solo. Il ragionamento non faceva una grinza.
La portaerei che mi attendeva era la USS Lexington CV-16, chiamata affettuosamente Lady Lex, entrata in servizio nel 1943 e trasformata in portaerei da addestramento (CVT-16) nel 1962. Il nostro sarebbe stato l’ultimo gruppo di piloti in addestramento ad appontare sulla Lex, dal momento che l’anziana e gloriosa “Signora” era destinata ad essere musealizzata e trasferita a Corpus Christy, in Texas.
L’addestramento non iniziò sotto i migliori auspici, perché fu segnato dalla morte di un allievo pilota infilatosi in mare mentre volava in formazione a bassa quota, mentre era in rotta verso la portaerei. Fu molto doloroso perdere uno di noi, un giovane con tanta passione e voglia di avventura… e un’intera vita davanti a sé. Ma il nostro addestramento doveva procedere senza interruzioni ed esitazioni, quindi non ci fu concesso nemmeno il tempo per le lacrime e il dolore e nemmeno per riflettere sull’accaduto, a meno dei necessari e pertinenti richiami sulla sicurezza del volo. Una cosa era ormai certa: la carriera di pilota navale, che avevo intrapreso implicava dei rischi, anche estremi, soprattutto per i più giovani e inesperti.
Il giorno dopo decollai con il mio T-2, inserito in una formazione di 4 aerei che, a bassa quota, facendo lo slalom fra le nuvole, puntavano verso la Lex. La Nave, sebbene fosse una portaerei, dall’alto sembrava un francobollo e pareva impossibile appontarci. A poppa disponeva di 4 cavi di arresto posti all’inizio di un’area di appontaggio angolata della lunghezza di circa 150 mt, orientati in modo perpendicolare alla direzione di arrivo dell’aereo e collegati a un sistema idraulico per assorbire le energie in gioco.
L’aereo in appontaggio, utilizzando il suo gancio di arresto – chiamato tail hook – situato in coda, doveva riuscire ad agganciare uno dei 4 cavi in modo da potersi fermare sul ponte di volo in pochi metri e in un paio di secondi. A prora la Nave disponeva inoltre di una catapulta che utilizzava l’energia del vapore per lanciare l’aereo che doveva decollare, considerato che il suo motore non era in grado di erogare la potenza necessaria per prendere il volo nel poco spazio disponibile.
Il tempo scorreva velocissimo e in un battibaleno arrivò il mio turno per entrare nel circuito di appontaggio. Cominciai a scorrere gli occhi sulla checklist di appontaggio, per essere sicuro di compiere tutte le azioni necessarie. Arrivai al punto in cui dovevo abbassare il tail hook, ossia il citato gancio. Appena abbassai quella leva mi si accese in mano la sua luce rossa, che indicava la non completa estensione del gancio. Non volevo credere ai miei occhi e così feci un basso passaggio vicino alla torre di controllo della portaerei, che confermò che il gancio non era in sicurezza. Non c’era niente da fare, dovevo tornare a terra!
Il giorno dopo mi ripresentai a Lady Lex. Ormai ero allineato sul sentiero di discesa verso il ponte di volo, l’adrenalina scorreva in abbondanza perché mi apprestavo a fare una delle cose più rischiose ed entusiasmanti per un pilota della Marina: appontare con un jet su una nave in mezzo al mare. Ero in contatto con il Landing Signal Officer che, tramite radio, mi aiutava a mantenermi nei parametri di volo, mentre i miei occhi erano incollati alla Lente di Fresnel, ossia al sistema ottico di ausilio all’appontaggio, con le sue luci colorate.
La luce ambra, detta “meatball” (polpetta), che si muoveva in verticale, era un po’ alta rispetto alla linea di riferimento orizzontale costituita da luci verdi e ciò indicava che ero un po’ alto sul sentiero di discesa prestabilito. Cominciai subito a correggere aumentando il rateo di discesa, in modo da allineare la meatball alle luci verdi. Mi echeggiavano nelle orecchie le martellanti parole dell’istruttore, pilota navale anche lui, durante l’addestramento propedeutico a terra, quando insisteva affinché mi concentrassi sulla meatball dicendomi “fly the ball”, senza preoccuparmi dell’impatto sul ponte di volo che, se avessi seguito bene la procedura, mi avrebbe dovuto sorprendere. Questa era la tecnica migliore per ingaggiare il cavo di arresto ottimale, ossia il terzo dei quattro disponibili.
La botta sul ponte mi sorprese non poco e in modo anti-istintivo – come previsto – lanciai la manetta in avanti per ottenere la massima potenza, in modo da essere pronto a ridecollare se il tail hook non fosse riuscito ad agganciarsi al cavo di arresto. Sebbene il motore spingesse al massimo, mi sentii strappare dal sedile a causa della rapida decelerazione. Avevo preso con successo il terzo cavo e non tardò l’ordine di portare la manetta al minimo, mentre il cuore continuava ad andare al massimo, pompando per lo stress e l’esultanza.
Ciò che sembrava impossibile, grazie al rigoroso rispetto delle procedure e delle tecniche che mi avevano insegnato, si realizzò, quasi magicamente. Tuttavia era presto per festeggiare, perché mi attendevano altri tre appontaggi per completare i 4 previsti per la qualifica di pilota navale. Seguendo le indicazioni del personale sul ponte di volo, il cui ruolo è contraddistinto da giubbe di colore diverso, mi portai in posizione di decollo, ove agganciarono il mio aereo alla catapulta che mi avrebbe scaraventato in volo, regalandomi più di 350 km/h di velocità in 2 secondi.
Sapevo che sarebbe stata una accelerazione pazzesca, perché la regolazione minima della catapulta era calibrata per velivoli di peso superiore a quella del mio. Era giunto il momento di decollare, con la mano sinistra portai il motore alla massima potenza spingendo sulla manetta, per poi aggrapparmi alla prevista maniglia, in modo tale che la forte accelerazione al decollo non mi facesse arretrare la mano e quindi la manetta, con conseguente disastrosa riduzione della spinta. Avevo ben regolato la cloche, che giaceva solitaria, perché la mia mano destra era contro il mio basso ventre, in posizione aperta e pronta a riceverla dopo il decollo, quando sarei stato in grado di governare l’aereo. Se avessi impugnato la cloche prima del decollo, la forte accelerazione mi avrebbe fatto arretrare la mano, causando una pericolosa cabrata.
I motori stavano urlando al massimo, quando arrivò il calcione della catapulta. Mi sentii schiacciare contro lo schienale del sedile. Nei primi secondi del decollo c’era solo da subire gli eventi e, infatti, avevo regolato i comandi di volo affinché l’aereo fosse in grado di seguire da solo la traiettoria iniziale. In contrasto con tutta quella violenza, sentii la cloche muoversi dolcemente nell’incavo della mia mano ed era come se l’aereo mi volesse dire “prendila, ora è tua”. L’agguantai con soddisfazione e cominciai a prendere il controllo del mio T-2. Anche in decollo, il rigoroso rispetto delle tecniche e delle procedure fu la chiave del successo.
Ormai mi sentivo in cima al mondo, mi sentivo invincibile e pronto ad affrontare i successivi 3 appontaggi e decolli con il vantaggio, finalmente, di sapere esattamente cosa aspettarmi. La Carrier Qualification che ho appena descritto non era certamente indispensabile per i piloti destinati agli Harrier, che appontano verticalmente scendendo dalla posizione di hovering sopra il punto di appontaggio e che decollano senza bisogno della catapulta, grazie agli ugelli orientabili. Tuttavia la Marina aveva giustamente voluto inserire nell’addestramento dei suoi futuri piloti di Harrier questa importante pietra miliare, che consente di acquisire una straordinaria confidenza e sicurezza nelle proprie capacità di pilota imbarcato.
L’aver messo i miei artigli sul ponte di Lady Lex, che era in procinto di essere musealizzata, mi valse il privilegio di ricevere in regalo un pezzettino del legno del suo ponte di volo, affogato in un blocchetto di resina per preservarlo. È una reliquia di cui sono particolarmente fiero, sia per le straordinarie emozioni che mi ha regalato quella Nave, sia perché quel frammento rappresenta la fine di un’era: quella dei ponti di volo rivestiti di legno. Un’altra reliquia che conservo è la maglietta che avevamo realizzato per ricordare la Carrier Qualification. Sotto lo stemma “Lex get naked”, è raffigurata una ragazza, che rappresenta Lady Lex nelle sue sembianze più giovanili, che viene denudata da un T-2 che con il suo gancio di arresto le ha strappato il reggiseno e le ha agganciato le mutandine. Si concluse così la prima fase di addestramento sul T-2.
Di Paolo “Pitbull” Treu (Ammiraglio di Squadra Pilota Marina Militare) – EmmeReports