Sempre insieme, tra le strade dei vecchi quartieri di Palermo, tra morti ammazzati e degrado, sempre insieme, fianco a fianco, accomunati dalla passione per la fotografia e per il giornalismo, con l’dea di documentare una città in mano alla mafia, spinti dall’esempio di Peppino Impastato e dal lavoro di coraggiosi magistrati. Questa è stata la vita di Franco Zecchin e Letizia Battaglia, insieme nella vita come nel lavoro. Trasferitosi a Palermo nel 1975, Zecchin diventa fotografo professionista, lavorando sulla mafia, la corruzione politica e le condizioni sociali in Sicilia. Scatto dopo scatto, le sue fotografie diventano famose in tutto il mondo, diventando parte delle collezioni dell’International Museum of Photography di Rochester, del MOMA di New York e della Maison Européenne de la Photographie a Parigi. Lo abbiamo incontrato a Palermo, a circa dieci giorni dall’ultimo saluto alla sua storica compagna.
Quando hai conosciuto Letizia Battaglia?
L’incontro con Letizia battaglia è nato attraverso il teatro, perché era un interesse comune e ci siamo ritrovati a partecipare ad un workshop di Grotowski, nella provincia di Venezia, durato quasi un mese, in una villa del Palladio, in cui c’erano una trentina di persone provenienti da diverse parti del mondo e lì è iniziata la nostra storia sentimentale.
Poi Palermo dunque?
Si, sono venuto a Palermo e ho iniziato a fotografare con lei che, già da alcuni mesi, lavorava con il giornale L’Ora. Quindi abbiamo iniziato a costruire questa esperienza comune, andando sempre in giro insieme, dappertutto. Non c’era più un confine tra la vita pubblica e quella privata. Volevamo essere presenti, testimoniare e raccogliere le immagini di una società che noi potevamo vedere attraverso il mestiere di fotogiornalisti in quegli anni.
Com’era lavorare con Letizia Battaglia?
La fortuna è stata che eravamo assolutamente complementari. Mentre lei aveva un approccio più chiassoso, che attirava l’attenzione, che imponeva un rapporto con i soggetti fotografati, con cui c’era un’azione/reazione, io ero molto più silenzioso e mi avvantaggiavo di questa sua irruenza, per potere scomparire e fare le mie fotografie in modo molto più tranquillo e molto meno notato rispetto a lei.
Quindi, in strada a “caccia” di storie e poi?
Alla fine il risultato era scegliere insieme quell’immagine che giudicavamo la migliore, per poi firmarla insieme. Una scelta giusta in quegli anni, ma che, nel momento in cui ci siamo separati, è stata estremamente difficile.
Litigavate mai sul lavoro?
Se c’era uno dei due che voleva imporre la sua scelta, l’altro cedeva, non c’era nessuna rivalità. L’idea era che, apparendo collettivamente, con le foto firmate da entrambe, come quelle di Mattarella o di Costa, il vantaggio fosse reciproco. Poi componevamo anche una narrazione visiva, quindi non era solo la singola fotografia, ma un insieme di fotografie che si appoggiavano l’una all’altra. E appunto perché c’era questa complementarietà di sguardi, c’era anche un arricchimento, in cui il lavoro completo non era solo la somma delle foto di uno più quelle di un altro, ma era un qualcosa che andava oltre.
Cosa ti appassiona del fotogiornalismo?
Io andrei oltre la definizione di fotogiornalismo. La passione è quella per la fotografia. Il fotogiornalismo è una delle possibilità di esercizio della fotografia. È una catena, un insieme di relazioni in cui il fotografo esercita una delle parti. Però se parliamo di fotogiornalismo, parliamo anche di giornale, quindi di una pubblicazione, quindi di tutta una predisposizione anteriore e una post-produzione poi, che serve per arrivare al prodotto finale, di cui fa parte la fotografia. Il giornalismo evolve e il ruolo del fotografo è limitato ed è in funzione di questa catena di informazione.
Quindi non c’è un confine tra fotografia e fotogiornalismo?
Ovviamente i confini non sono così metti, noi facevamo fotogiornalismo, ma facevamo pure le mostre, noi eravamo tra i fondatori del Centro Impastato e pensavamo di fare delle mostre militanti nelle scuole o nelle piazze di Palermo, Corleone o dovunque fosse possibile. Volevamo stare a contatto con la cittadinanza, con il pubblico, in modo diretto, scavalcando quello che era l’intermediazione del giornale, che seguiva le sue logiche e il suo condizionamento mediatico, che a noi andava stretto. Abbiamo capito che il materiale che producevamo era limitato alla stampa del giornale. Avevamo l’esigenza di mostrare certi argomenti in un altro modo, più diretto, in cui gestivamo noi la narrazione visiva e quindi abbiamo costruito queste mostre, con dei testi, con un fine assolutamente didattico. L’idea era di contribuire a creare una mentalità che andasse contro quella dell’omertà.
Era rischioso fare fotografia militante e antimafia?
Quando andavamo a Corleone, ad esempio, non avevamo nessuna autorizzazione, quindi ci esponevamo a eventuali reazioni, sia da parte del contesto che andavamo a punzecchiare, sia da parte delle autorità che temevamo che le nostre mostre potessero creare disordine pubblico. Era una presa di rischio, ma soprattutto una forma di militanza antimafia, seguendo l’esempio di Peppino Impastato.
Secondo te siamo alla fine del fotogiornalismo?
Io penso che quelli che dicono che il fotogiornalismo è finito, non hanno più voglia di farlo. Il fotogiornalismo non è finito, tutto si trasforma. Forse è più ingrato e difficile rispetto a quello degli anni d’oro, ma non è finito. C’era un periodo in cui tu riuscivi ad avere una forma di assignement da parte di un giornale, andavi con una proposta e ti davano la possibilità di realizzarla. Oggi forse è più complicato, per la reale mancanza di budget. Il giornalismo si è appiattito su logiche di tipo finanziario. Ma questo non impedisce che ci possano ancora essere forme di giornalismo militante. Voi di EmmeReports siete un esempio!
Josef Koudelka sosteneva che se una foto superava la prova di un anno, poteva essere una foto buona. Ci sono tante foto che hanno superato questa prova?
Si
Dopo la tua esperienza da queste parti, hai capito veramente come è fatta la Sicilia?
Se tu mi fai una domanda del genere, identifichi una Sicilia come qualche cosa di statico e di fissato. Non esiste questa idea della Sicilia. Io la rifiuto, perché vedo le cose come un’evoluzione, un movimento, una dinamica, che è quello interessante, anche da fotografare.
Di Francesco Militello Mirto & Victoria Herranz