Intervista esclusiva al Commissario Emergenza Covid di Palermo
La sua voce ferma si fa sentire oltre il via vai del rumore di una Fiera che non si è mai fermata da quando la vita, a quanto pare, ha smesso di essere ciò che conoscevamo, per via del Covid. E da più di un anno che ha lasciato l’ospedale, per occuparsi dell’emergenza come Commissario Covid. Una pandemia mondiale, le vite sospese, le economie in ginocchio. Magari la sua nomina è stata l’unica scelta prevedibile in una situazione in cui tutto ciò di improbabile è stato. Esperto in medicina nucleare storicamente impegnato nella lotta per migliorare il sistema sanitario. Seduto davanti a noi risponde alle nostre domande il Dottor Renato Costa.
Qual è la situazione Covid-19 negli ospedali?
Tranquilla. L’anno scorso, in questo periodo, avevamo gli ospedali pieni. A distanza di un anno non c’è dubbio che sono praticamente vuoti. Oggi abbiamo a Palermo e provincia, dieci malati Covid in terapia intensiva, ovviamente tutti pazienti non vaccinati. I nostri reparti non intensivi hanno un numero di pazienti veramente esiguo. Questo non vuol dire che il virus non stia circolando, perché in giro ci sono alcuni positivi in più. Il grande lavoro che abbiamo fatto sui vaccini, fa sì che tutto diventi impermeabile al virus. Anche là dove il vaccinato diventa positivo, è comunque asintomatico. Fino a quando il virus mantiene queste caratteristiche, lo controlliamo abbastanza bene dal punto di vista clinico. La preoccupazione è che se il Covid-19 gira troppo, potrebbe teoricamente mutare più facilmente perché, più sistemi immunocompetenti conosce, più prende l’abitudine di dovere assumere delle mutazioni. Ecco il motivo per cui abbiamo il dovere di non farlo circolare.
“Il grande lavoro che abbiamo fatto sui vaccini, fa sì che tutto diventi impermeabile al virus“
Quanti sono i posti letto in terapia intensiva?
Abbiamo fatto due reti ospedaliere: una esclusivamente dedicata al Covid e un’altra per pazienti non Covid. Dei 56 posti di terapia intensiva dedicati al virus, attualmente sono occupati soltanto 10, così come dei posti letto ordinari abbiamo 281 posti e occupati 65. I posti si stanno riducendo, ma non abbiamo pressione. Per fare un’idea, in Sicilia invece i posti di rianimazione dedicati al Covid sono 207 e sono occupati solo 39, mentre quelli di degenza ordinaria sono 1.084 e ne abbiamo occupati 311. Quindi i nostri ospedali non stano soffrendo, sono in una condizione di assoluta tranquillità. L’anno scorso eravamo già quasi alla soglia massima di riempimento.
Com’è avvenuto questo miglioramento?
Abbiamo fatto un grande lavoro sulle vaccinazioni, a Palermo più che in altri posti, dove abbiamo raggiunto quasi il 90%. È un numero abbastanza grande di persone vaccinate contro il Covid, che ci sta proteggendo. Però, abbiamo un virus che continua a circolare e ci preoccupano alcuni atteggiamenti che abbiamo, sia in Sicilia che Italia, ma soprattutto in Europa, perché questo virus non possiamo ragionarlo in termini provincialistici. Il problema non è siciliano, né italiano, ma neanche europeo. È mondiale, perché se il virus agisce in qualsiasi parte del mondo, siamo sempre a rischio. Allora gli atteggiamenti, soprattutto di molti paesi europei che hanno deciso di allentare le restrizioni, come Francia, Inghilterra e Germania, è assolutamente controproducente, perché poi dobbiamo porre rimedio al contrario. Bisogna tornare indietro e rifare le restrizioni.
“Il problema non è siciliano, né italiano, ma neanche europeo. È mondiale, perché se il virus agisce in qualsiasi parte del mondo, siamo sempre a rischio”
Ma l’Italia non ha allentato le restrizioni.
Tutto sommato in Italia, dove le restrizioni sono andate in modo graduale, la situazione è più sotto controllo. Ma ci sono alcuni atteggiamenti che non vanno bene, come gli assembramenti di Trieste, perché là dove c’è una qualsiasi manifestazione o una partita di calcio, là dove si determinano tutte le condizioni che fanno assembramento, a distanza di poco tempo c’è un focolaio. Così come a Palermo mi sono molto preoccupato della manifestazione del Gay Pride, non perché abbia qualcosa contro, anzi, ma perché in questo momento faccio il commissario Covid e non posso concepire che ci siano manifestazioni con migliaia di persone assembrate in piazza, soprattutto senza mascherina né distanziamento, cioè senza i criteri normali.
E quando si incominciano a vedere i risultati di questi atteggiamenti?
Già qualcosa abbiamo visto, perché c’era gente che aveva partecipato e stava tornando nel suo paese d’origine e, siccome abbiamo dei controlli in aeroporto, sia in entrata che in uscita, abbiamo avuto l’esatta dimensione che ci fossero stati dei singoli contagi. Adesso speriamo che non succeda niente a distanza di altri dieci giorni. E se poi è andata bene non significa niente. Ok siamo stati bravi, evidentemente i vaccinati funzionano, ma non possiamo rischiare perché là dove ci sono allentamenti delle regole, basta che ci sia un positivo, che si crea un disastro.
Più o meno abbiamo un’idea di quando può finire?
Per essere estremamente prudenti potremmo essere tranquilli l’estate prossima se… con un sacco di se: se ci sono alcune condizioni, se si rispettano i parametri e siamo sempre abbastanza ordinati e continuiamo a vaccinare, cioè, se si rispettano tutti questi “se”, credo che dall’estate prossima potremmo cominciare a dire che il Covid può essere, non dico un ricordo, perché ci dovremmo convivere per molti anni, però sicuramente non più un’emergenza. Lo stato di emergenza potrebbe realisticamente finire, quanto meno in Europa. In Africa sarà più difficile.
La terza dose come va?
Ci crediamo molto alla terza dose del vaccino anti-Covid. In quelli come me, che fanno il medico e si sono vaccinati nel gennaio del 2021, già a distanza di dieci mesi, l’immunità comincia ad abbassarsi. Molti colleghi hanno cominciato ad essere positivi e quindi è giusto richiamare l’immunità in queste persone, così come nelle persone fragili, negli immunodepressi e, via via, è anche giusto che tutta la popolazione abbia un richiamo immunitario. Non è una cosa che ci ha insegnato il Covid, ma che avviene per tutti i vaccini. Per esempio, per la poliomielite si fanno cinque richiami di vaccino senza che nessuno si scandalizzi.
“Per la poliomielite si fanno cinque richiami di vaccino senza che nessuno si scandalizzi”
Quindi il vaccino diventa periodico come quello dell’influenza?
Potrebbe essere, se il virus del Covid passa da una fase pandemica a una epidemica o, addirittura, endemica, che significherebbe che ci dovremmo convivere. È probabile che si debbano fare dei richiami alle persone immunodepresse, non a tutta la popolazione. Ce lo dirà la curva pandemica. Sempre che il virus rimanga quello che abbiamo conosciuto.
E se invece cambia?
Se ha una variabilità, possiamo avere più difficoltà a riconoscerlo, ad affrontarlo con i farmaci mirati, ma se cambia completamente il vaccino potrebbe rendersi inefficace.
Oggi cosa sappiamo?
Che il vaccino ci protegge dalla malattia, non dall’infezione, perché anche i vaccinati si infettano ed è una condizione con cui dobbiamo convivere. Il dato positivo è che il vaccinato si infetta, ma non si ammala. Se il virus però assume un atteggiamento più aggressivo, ci potrebbe essere il rischio teorico, che speriamo non si verifichi mai, che il vaccinato si infetti e si ammali perché lo schermo non è più quello che ci ha dato il vaccino fino adesso. Speriamo di no.
Per i bambini?
Abbiamo marginalizzato il virus a farlo circolare in quelle fasce di età di non vaccinate, quindi al di sotto di dodici anni, e non c’è dubbio che i bambini sono adesso il vero veicolo dell’infezione, perché il virus cammina sulle gambe delle persone, e molto più facilmente se la persona non è vaccinata. Perché se è vaccinata fa comunque uno schermo. Per ciò dobbiamo assolutamente vaccinarli. Gli americani lo stano facendo e molti paesi ci stano già lavorando. Questo è all’esame delle agenzie nazionali e internazionali del farmaco. Prima lo facciamo prima ci sentiremo più tranquilli.
Di quale età stiamo parlando?
Questo lo stabilirà il Comitato Tecnico Scientifico però, secondo me, almeno dai quattro anni in su. Potrebbe diventare uno dei vaccini che fa parte del pacchetto per i bambini.
Nel caso dei bambini, li andate a trovare nei quartieri o devono venire in Fiera?
Li andiamo a cercare, si. Stiamo cercando di cambiare atteggiamento. Siamo passati da una fase in cui il nostro hub vaccinale, che ha già fatto quasi 600.000 iniezioni, 6.300 al giorno, a renderci conto che per migliorare, non solo la distribuzione, ma anche l’accettazione della vaccinazione, è meglio uscire dall’hub e portare il vaccino nelle periferie ed è quello che stiamo facendo. Intanto perché adesso diminuisce la quota, non dobbiamo più farne due ma, come richiamo, uno soltanto. Quindi se andiamo in un posto scendiamo molto più facilmente e non ci dobbiamo tornare. Abbiamo l’idea che questo è il metodo che ha funzionato e che dobbiamo implementare.
Com’è nata l’idea di andare a trovare i cittadini nei quartieri per farli vaccinare?
A un certo punto ci siamo accorti che le persone non venivano perché il 10 giugno in Sicilia si sono aperti i lidi, quindi c’era la possibilità di andare nelle spiagge. Automaticamente da quel momento in poi non avevamo più utenti, perché andavano al mare, quindi abbiamo pensato di andare anche noi al mare e vaccinarli lì. Non era paura quello che avevano i palermitani, era pigrizia. Infatti quando mi chiedevano se noi eravamo un popolo di No Vax, perché la Sicilia aveva un tasso di vaccinazione molto basso, ho detto assolutamente no: siamo un popolo di pigri, abbiamo bisogno di avere il vaccino sotto casa così dici ‘se scendi ti faccio il vaccino’. Una buona parte di persone era già convinta, l’altra diffidente. E ai diffidenti ci devi parlare!
A cosa era dovuta questa diffidenza?
Il timore era che loro non avevano contezza di cosa può fare un vaccino oppure perché avevano sentito di qualcuno che era stato male dopo averlo fatto. Il nostro rapporto con la medicina di base non è mai stato assolutamente stretto e, quindi, non c’era più un rapporto diretto col medico di Medicina Generale. Le spiegazioni, le curiosità, le diffidenze sul vaccino, restavano come se fossero delle cose irrisolte. Appena abbiamo interpretato che questo era il motivo, abbiamo deciso di agire esattamente su questo meccanismo, andavamo nei mercati, per esempio, e trascorrevamo le prime due ore, camminando tra la gente, spiegando, parlando, dicendo quali erano le possibilità, come funzionava un vaccino e, poi, dopo aver instaurato un rapporto di fiducia, abbiamo potuto fare le vaccinazioni. Ciò che ha funzionato di più è stata la nostra ricerca dell’intermediazione.
L’intermediazione?
Quando siamo andati in un quartiere, abbiamo fatto in modo di non andare come degli sconosciuti e dire ‘ti facciamo il vaccino perché siamo i medici e lo dobbiamo fare’. Lo abbiamo fatto attraverso le associazioni che in quei quartieri difficili ci lavorano, dove fanno il doposcuola, dove si occupano dei bambini, delle famiglie difficili, delle ragazze abbandonate. Attraverso questi, abbiamo avuto la possibilità di risparmiarci il rapporto di confidenza, perché eravamo presentati da loro. E questa cosa ha funzionato e continua a funzionare moltissimo. Siamo riusciti ad andare ovunque perché siamo stati presentati.
Questa è una particolarità di Palermo?
Sì, questo sistema ha sempre funzionato bene, anche quando abbiamo deciso di vaccinare le donne in gravidanza, che spesso non avevano la contezza ‘mi devo vaccinare, non mi devo vaccinare, che cosa mi conviene fare’. Il giorno in cui abbiamo dedicato le vaccinazioni alle gravide, abbiamo fatto venire una serie di ginecologi, professori universitari e primari ospedalieri, che sono venuti solo per ascoltare, per cui le donne in gravidanza sapevano che potevano venire per parlare, per chiedere qualsiasi cosa e, soltanto se si convincevano, facevamo il vaccino. Non era il ginecologo che parlava, era la donna che chiedeva, perché al contrario non può funzionare. Il ginecologo ascoltava il problema della donna. Non c’è un problema uguale per tutte, non tutte sono la stesa cosa, né vivono la stesa realtà.
Qual è invece il profilo dei No-Vax?
I No Vax sono veramente pochi. Nella mappa dell’ultima rivelazione che abbiamo dei quartieri di Palermo, le uniche zone gialle sono dove le vaccinazioni sono sotto il 76%, che è una cifra già altissima. Tutto il resto della città è vaccinato oltre l’80%. Ha funzionato molto bene, l’aver avuto la possibilità di geolocalizzare i vaccinati, cioè di capire quali quartieri vaccinavano di più e quali di meno. Perché, se dobbiamo fare un intervento, lo facciamo nel quartiere che vaccina di meno. I mercati popolari, Ballarò, l’Albergheria e lo Zen, zone prima rosse, oggi sono diventate gialle.
I palermitani ci hanno sempre creduto alla pandemia?
I palermitani hanno dimostrato di avere un atteggiamento prudenziale. Come se ne sono accorti e come abbiamo fatto noi per capire se il virus era anche a Palermo? Con l’apertura del drive-in, che non si è mai fermato da ottobre dello scorso anno, perché permetteva a tutti gratuitamente di venire a farsi un tampone. É stata un’intuizione molto importante, perché la gente che aveva difficoltà ad accedere, che non sapeva come farsi un tampone, ma che voleva controllarsi, veniva in macchina e gli glielo facevamo. Lo scorso anno facevamo circa 3.000 tamponi al giorno, in totale più di 700.000 tamponi da quando esistiamo. Ne facevamo 3000 al giorno e ne trovavamo 300 positivi ma non erano soli perché ognuno aveva, almeno, tre contatti stretti, moglie, figlio, per cui, in realtà, ogni giorno mettevamo in isolamento 2.700 persone. Siccome sono stati dati enormi, la gente ha capito che il virus era anche a Palermo e si è spaventata.
E cosa stava succedendo?
Chi veniva in fiera, trovava noi, la tenda dell’Esercito Italiano, i tamponi. È stato uno scenario di guerra, avevamo tappeti di macchine, il nostro personale medico vestito in biocontenimento e, soprattutto, un quantitativo enorme di positivi. Non c’è stato un solo palermitano che non sia passato da qua. Chiunque, almeno una volta, ha fatto il tampone o il vaccino, si è reso conto della gravità, ha preso coscienza e ci ha seguito.
“È stato uno scenario di guerra, avevamo tappeti di macchine, il nostro personale medico vestito in biocontenimento e, soprattutto, un quantitativo enorme di positivi“
E allora perché si è tornati di nuovo alla zona gialla?
Palermo è una delle città più vaccinate in Italia, non solo in Sicilia. Anche come numero di contagi siamo stati abbastanza contenuti, proprio per la percentuale di vaccinati che abbiamo avuto. E’ tornata di nuovo la zona gialla, perché comunque è un pezzo della Sicilia. Il problema veniva sulla percentuale della Regione. Per un pezzo, quando siamo diventati zona gialla, oltre che avere una vaccinazione bassa, avevamo la percentuale di terapie intensive che erano al di sopra del 15%. E questo era uno dei parametri che faceva scoppiare la zona gialla. Ma non l’abbiamo vissuto come un dramma, perché eravamo assolutamente consapevoli che non lo era.
Ma, quando si fanno i tamponi, c’è una regola in Italia per fare la percentuale?
Uno dei problemi che questa pandemia ha messo in evidenza, secondo me, è che una nazione non può avere una Sanità regionale. Deve essere una, universale e gratuita, per tutti. Se non ci sono questi principi, il sistema sanitario non funziona. Grazie all’autonomia, per cui ogni regione decideva per se, avevamo difficolta a capire quando si dovevano fare le zone rosse in Lombardia, se la competenza era della Regione o dello Stato centrale. Questa indecisione probabilmente avrà avuto anche un peso. I conti si farebbero meglio con un solo sistema regionale: che cosa contiamo? I tamponi rapidi o i tamponi molecolari? Tutti e due o questo? Come li facciamo? Cioè con un sistema che parla una sola lingua. Ma così purtroppo non è. La nostra raccolta dei dati risente di regole che sono regionali. Poi le mettiamo assieme, ma non è detto che questi dati siano omogenei perché c’è un vizio di forma. La buona medicina presuppone un buon servizio sanitario che non può prescindere dell’unitarietà e l’universalità del servizio.
“Uno dei problemi che questa pandemia ha messo in evidenza, secondo me, è che una nazione non può avere una Sanità regionale. Deve essere una, universale e gratuita, per tutti“
Aveva mai pensato di trovarsi in questo posto?
No. Mai avrei immaginato di dover affrontare una pandemia, né come medico, né come cittadino e nemmeno come commissario per l’emergenza.
Allora perché ha accettato l’impegno?
Avevo avuto qualche incarico sindacale, per cui mi sono sempre occupato della gestione e dell’organizzazione dei sistemi sanitari e di come dovrebbero funzionare, di quali erano le criticità. Se un governo mi dice ‘ti do l’opportunità di occupartene’ è come se, in un attimo, avessi avuto la possibilità di dire tutto quello che ho pensato, per cui ho lottato e poterlo realizzare essendo in una condizione di emergenza. La cosa che più mi ha colpito, da quando è cominciata la pandemia, è che dal sistema sanitario nazionale abbiamo avuto in dieci giorni quello che chiedevamo da venti anni, ovvero più soldi, più personale, la possibilità di avere i posti letto nuovi, nuovi reparti, nuove strutture.
Il suo nome è venuto fuori giusto perché storicamente aveva fatto delle lotte?
Probabilmente è stata una delle motivazioni per cui il Governo regionale del presidente Musumeci e l’assessore Razza mi hanno scelto.
Continua a lavorare come medico in ospedale?
No, non posso perché non ho il tempo di respirare. Sono dipendente del Policlinico di Palermo, quindi dell’Università e sono in aspettativa ormai da più di un anno.
La decisione più difficile?
Avere detto sì, anche se non è stata neanche così difficile, visto che ci ho messo sì e no un quarto d’ora quindi… Era una scelta dalla quale non si poteva tornare indietro. Tutto quello che c’era stato prima non ci poteva essere più e così è stato. È stato uno sconvolgimento della mia vita, non soltanto personale, ma anche lavorativa, perché ho lasciato un reparto, dei progetti di ricerca che comunque erano in itinere, ma ci siamo confrontati con una cosa ancora più importante.
Tornerà al suo reparto?
Sì, sicuramente torno al reparto. Spero intanto quando finirà di prendere una settimana di ferie.
Quindi torna a fare il medico?
Assolutamente sì. Dobbiamo finire questa fase, uscire da questa emergenza nel miglior modo possibile. Credo che ognuno di noi ha dato il contributo che doveva dare, adesso dobbiamo tornare ad una vita normale che significa anche questo, tornare a fare quello che si faceva prima.
Ultima domanda, è stanco?
Sì, però c’è sempre la voglia di fare. Ma sono un po’ stanco, sì…
Di Victoria Herranz & Francesco Militello Mirto – EmmeReports