Alle 23.59, ora locale di Kabul, del 30 agosto 2021, il Maj. Gen. Chris Donahue, comandante della 82nd Airborne Division dell’US Army e Ross Wilson, salgono a bordo del C-17 dell’USAF. È l’ultimo volo, che segna il ritiro degli americani dall’Afghanistan, dopo venti anni di missione. Alcuni minuti dopo la mezzanotte la Federal Aviation Administration emette un NOTAM, dichiarando che l’aeroporto internazionale di Hamid Karzai non è più controllato, che non sono più disponibili servizi di controllo del traffico aereo e aeroportuali. Le forze talebane entrano dentro il sedime aeroportuale e ne prendono definitivamente il controllo con le armi. Non sarà più possibile lasciare il Paese, se non ci saranno nuovi accordi tra il nuovo governo islamico e quello degli Stati Uniti, che spera di rimettere in funzione l’aeroporto di Kabul, in modo da permettere agli ultimi cittadini americani rimasti e ad eventuali afghani di lasciare il Paese. Il Segretario di Stato Americano Anthony Blinken ha dichiarato che i talebani si sono impegnati per consentire alle persone di partire e che il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti collaborerà con gli alleati, per facilitare le evacuazioni utilizzando anche voli charter.
Gli aerei americani e della coalizione hanno evacuato più di 123.000 civili in un periodo di 18 giorni iniziato il 14 agosto. Un’operazione di evacuazione che ha attirato l’attenzione dei media italiani verso l’Afghanistan, argomento molto caro, fino a poco tempo fa, solo a pochi giornalisti embedded che, nonostante i veti di alcuni Ministri della Difesa succedutisi negli anni, hanno cercato di raccontare, con non poche difficoltà, il lavoro dei militari italiani nel martoriato teatro operativo afghano.
Militari italiani che, come noi che abbiamo respirato la polvere afghana, non riescono a dimenticare quel paesaggio estremo, fatto di dune, montagne e vallate. “Un soldato lascia le valli dell’Afghanistan, ma le valli non lasciano mai il soldato” ci ha spiegato un ufficiale italiano, di cui, per ovvie ragioni di sicurezza, non scriveremo né il nome, né la Forza Armata di appartenenza e che ci ha raccontato la storia, a lieto fine, di un interprete afghano che ha lavorato con il contingente italiano ed in particolar modo, con il militare italiano.
I due si sono conosciuti nel 2006 e negli ultimi quindici anni, sono sempre rimasti in contatto, scambiandosi sempre gli auguri di Pasqua, Natale, Capodanno, dell’inizio Ramadan, della fine e di altre festività musulmane. Karim (nome di fantasia) ha moglie e due bambini. Quando il militare italiano tornava in licenza in Italia, lui preparava dei regali per la moglie e i suoi figli e lui faceva lo stesso al mio rientro in Afghanistan per Karim. Una bella storia di collaborazione, ma anche di amicizia.
Già da diverso tempo l’interprete aveva preso accordi con gli americani per ottenere un visto e andare negli USA ma, con la pandemia, questo appuntamento è slittato e gli eventi di questa estate lo hanno isolato ad Herat, dove, dopo l’ingresso dei Talebani ha dovuto nascondersi e bruciare tutti i documenti che lo avrebbero ricondotto a collaboratore della coalizione internazionale. Karim ha dovuto cambiare cancellare la cronologia delle chat, tagliare i capelli e fare il possibile per restare nell’ombra. Tra pericoli di essere fermati, perquisiti e uccisi dai talebani, Karim e la sua famiglia sono riusciti a lasciare Herat e, dopo tre giorni di viaggio, a raggiungere Kabul, dove ha trovato il personale italiano della Joint Evacuation Task Force, che li ha messi al sicuro e, infine, imbarcati su un volo che li ha portati negli Stati Uniti.
“Oggi quando Karim mi ha scritto, non nascondo di aver pianto di gioia”, ci ha detto l’ufficiale italiano, “e quando ho avvisato mia moglie, anche lei è scoppiata in lacrime e lo abbiamo raccontato ai nostri figli. Il vostro papà si è guadagnato un pezzettino di paradiso salvando quattro persone, ho detto ai miei bambini”.
Sono tante le storie simili, di donne, uomini e bambini che hanno dovuto lasciare il loro Paese, dove sono nati e cresciuti, nonostante le enormi difficoltà e da dove non sarebbero voluti andare via. Ma lo hanno dovuto fare, perché, la politica internazionale ha più importanza della vita delle persone. Sono stati degli accordi politici, infatti, che hanno decretato il ritorno al potere in Afghanistan, di quelli, che poco tempo prima, erano i nemici da combattere e da sconfiggere.
Migliaia di afghani hanno guardato, per l’ultima volta, il loro Paese, dalla rampa di carico dei velivoli della coalizione. Lo hanno fatto anche quelli che sono saliti a bordo dei C-17 americani e che, dopo diversi giorni di viaggio, hanno raggiunto la Naval Air Station di Sigonella dove sono stati accolti e supportati da personale americano e italiano.
“La base italiana è stata resa disponibile dal Governo Italiano, per consentire la sosta e il transito del personale evacuato, nell’ambito dell’Allied Refugee Operation, condotta dagli americani, che hanno messo a disposizione, qui a Sigonella, un supporto logistico confortevole”, ha spiegato il Colonnello Howard Lee Rivera, comandante del 41° Stormo. “Ho visto espressioni di allegria, felicità nei volti degli afghani arrivati da Kabul”.
“Vorremmo non farli partire” ha dichiarato il Contrammiraglio Scott Gray, comandante Navy Region Europe, Africa, Central “Questa operazione è stata una grande esperienza emotivamente molto bella. Vedere la felicità negli occhi dei bambini ci gratifica molto”.
“Non potrei essere più orgoglioso dei miei uomini” ha detto il Capitano di Vascello Kevin Pickard, comandante di NAS Sigonella “è stato un importante sforzo di solidarietà non solo dei militari, ma anche da parte delle famiglie e di associazioni e civili che ci hanno donato aiuti necessari per loro”.
Di Francesco Militello Mirto – EmmeReports