Al Centro d’Arte Raffaello si inaugura oggi una mostra ricca di colore che raccoglie opere di pittori italiani che hanno dedicato al mondo costiero di naviganti e pescatori un’attenzione particolare.
La presenta così Sabrina Di Gesaro, direttore artistico dell’evento: “Una collettiva sul tema del mare, ma soprattutto il mare e l’acqua come momento di rigenerazione, come soffio di infinito, limite su cui far scivolare i nostri sogni. Ritengo che ancora una volta l’arte sappia dimostrare di precorrere i tempi, di sentire già quell’insofferenza che adesso la pandemia ha concretato limitando i nostri movimenti, la libertà, la genuina socialità di un incontro, di un sorriso. Queste opere, proprio perché non tutte realizzate per l’evento, ci parlano ancora più profondamente e senza ipocrisia. Il mare, il nostro Mediterraneo che per migliaia di anni è stato strada di scambio, di conoscenza, elemento capace di avvicinare coste lontane e città remote, è soggetto silenzioso e potente di questa mostra: che sia la fuga di un orizzonte, la culla del mito, la superficie tagliata dalla lucentezza di uno scafo o carezzata dalla costiera intrisa di colore, ha da sempre magnetizzato l’attenzione degli artisti. Proporlo in questo momento, dove tutto è legato a un fragile equilibrio dice chiaramente che guardare all’arte significa vivere più consapevoli, porsi domande e cercare risposte, prima che sia la cronaca a metterci brutalmente di fronte alla realtà; per questo l’arte è cultura, non solo bellezza, perché aiuta a comprendere il tempo della nostra vita”.
Sono sette gli artisti in esposizione, capaci di declinare la dialettica uomo mare con altrettanti linguaggi di forme e colori. Mariella Cusumano, architetto, nata a Partinico nella suggestiva cornice di vigne e uliveti che fanno corona al Golfo di Castellammare ha tracciato forme archetipe di pesci, non lontane dalle pitture vascolari o dai segni paleocristiani delle catacombe componendoli su di uno spazio bianco, con una composizione per linee diagonali che ne rende la visione naturale, nonostante l’estrema semplificazione del tratto. Il taglio dell’immagine, che entra o abbandona il campo visivo, estende i confini dell’opera oltre i limiti geometrici del dipinto; l’utilizzo di una tinta piatta e il cambio repentino di colore da una versione all’altra, permette di apprezzare la forza intrinseca della pittura, che evoca sensazioni di lontananza, di nuoto sereno oppure guizzante a seconda della scelta in blu, verde o rosso delle campiture. L’artista, dedita principalmente all’illustrazione, collabora con diverse riviste: “Illustrati” della casa editrice Logos e diverse edizioni digitali come “Brightness” e “Futura Corriere” del Corriere della Sera.
Athos Faccincani, artista veneto nato a Peschiera del Garda nel 1951, presenta invece radiose velature di luce, memore della tradizione lagunare riscoperta dopo un primo periodo di opere più buie e drammatiche, in cui l’ombra serviva per descrivere la condizione umana, fatta di desolazione e solitudine. Esperienza catartica nella sua arte fu la rievocazione della guerra fratricida contro il nazifascismo, che gli meritò – per una sua personale sulla Resistenza – la nomina a Cavaliere della Repubblica Italiana da parte del Presidente partigiano, Sandro Pertini. Athos Faccincani, da allora, ha cominciato a raccogliere sulla tela la vibrante luce mediterranea componendo le tele per piani orizzontali, in una rasserenata prospettiva a volo d’uccello che fa coincidere l’orizzonte visivo con quello marino. A caduta si svelano paesaggi assolati, colti nel primo meriggio, assolutamente nitidi e dove la profondità viene resa con reticoli di case e architetture sempre più piccoli, intrecciati, quasi astratti. Per contrastare la fuga verso l’infinito, corolle di fiori, foglie e frutta si schiudono all’osservatore, nei loro volumi di colore puro, costruiti attraverso scale di luminosità, sempre più accese. Raffinata scelta tecnica da parte dell’artista è la distinzione fra mondo di terra e d’acqua, il primo di luci e ombre, il secondo soprattutto di trasparenze e di riflessi.
Gianni Mattò è siciliano, anzi eguseo, nasce infatti nel 1942 nell’isola di Favignana e lì, per una vita, continua a dipingere figure legate alle emozioni della propria terra, scavata nel tufo e affacciata sullo scenario delle saline, dei mulini e in lontananza dalla mole acuminata del Monte San Giuliano. Mattò vive su quella roccia avara che fino a pochi secoli prima era dominio dei pirati barbareschi e diventa improvvisamente culla di una Sicilia industriale sotto i Florio, nella gestione meccanica e brutale della mattanza e della lavorazione del tonno. Fra le opere di Mattò in mostra dobbiamo distinguere le xilografie, stampe con matrice di legno, sono lavori a quattro mani con il maestro Salvatore Fiume che lo aveva conosciuto in un passaggio sull’isola ed era rimasto affascinato dal suo talento. Nate nel progetto di Alleanze Pittoriche fra il maturo artista siciliano e la sua più giovane scoperta, risentono della composizione solenne, scultorea e teatrale di Fiume, bilanciata dalla grazia flessuosa dei corpi di donna e impreziositi dai gesti epici dei pescatori di Mattò. Di sua concezione, invece, sono i tre dipinti su tela di juta dove la forza e la delicatezza della tavolozza di Gianni Mattò si allarga in stesure raffinate e forme essenziali. Profili nilotici di donne agghindate con colori primari, un sole che risplende sacralizzato, cieli iridati di albe e tramonti, linee d’orizzonte quasi nascoste ma capaci di essere perno dell’intera composizione. Oltre trent’anni fa, i dipinti sono del 1990, Mattò riprendeva i disegni srotolati dai cantastorie, le tradizioni dei carretti e con questi leggeva e rendeva eroica la narrazione del proprio tempo.
Della medesima generazione di Gianni Mattò è Renzo Meschis, nato a Palermo nel 1945, in una città silente e ferita dalle aspre vicende della guerra. Artista abile nella resa dei volumi, capace di costruire spazi geometrici e ordinati, attento al colore che sembra guardare alla tenerezza e alla gioia della primavera. Conosce il conterraneo Renato Guttuso, ne apprezza capacità e tecnica di costruire la profondità della rappresentazione e cerca di farne propria la lezione raccontando attraverso il paesaggio e soprattutto le case. Come un abito anche gli edifici parlano e già da soli, con la propria presenza, raccontano e sono traccia di piccole storie, echi di vicende, di passioni e di umanità. Il mare, linea piatta di confine, chiude e raccoglie questo mondo silenzioso e apparentemente vuoto, ridonando alla terra di Sicilia la propria centralità. “Panarea” “Scogliera di Mazzarò” e “Tenda rossa” sono opere del primo periodo nell’arte di Meschis, quando l’artista scelse di donarci l’immagine di un mondo che, fra sogno e ricordo, sembrava essere tornato in pace con la propria storia. Le sue composizioni gravitano sulle diagonali, lasciano al centro un colore più che una forma: una pennellata di azzurro, l’ocra gialla di un muro, il bianco calcinato di un intonaco. Le tende dalle tinte accese lasciano sempre un triangolo d’ombra, un punto di fuga, il nero accogliente che porta ristoro, la certezza di una presenza, di un luogo protetto, dove qualcuno bisbiglia o si abbandona a riposare nell’ombra.
Francesco Toraldo, invece, è calabrese; nasce a Catanzaro nel 1960 ma, trent’anni dopo, raggiunge a sua volta la Sicilia che diventa la sua terra di elezione. Ha attraversato lo Stretto, non viene dalla cultura contadina che mantiene il ritmo delle stagioni, dell’attesa di una pioggia, del fiorire nei frutteti, del timore di un improvviso vento di scirocco. La sua arte è impaziente, formata nella bottega del padre a sua volta pittore, e si esprime in queste serigrafie materiche con un segno vibrante, ritmico, futurista. Il mare è competizione, l’orizzonte confuso, le chiglie lucenti tagliano un’acqua fatta d’ombra e di schiuma. Vele ed equipaggi, colori e narrazione si mescolano come in una fotografia scattata troppo lentamente. Alle radici di queste composizioni, più che un’esperienza diretta, sembra esserci una cronaca sportiva dove la tensione del narratore si alimenta di continui colpi di scena, virate improvvise, giri di boa, ansia e adrenalina. Francesco Toraldo lavora adesso ad Agrigento e continua ad appropriarsi degli istanti di una vita per cristallizzarli in capsule del tempo, dove frammenti di sguardi, volti e simboli rimangono fissati al centro di un turbinio irrazionale e coinvolgente, un caleidoscopio dove l’artista si racconta denudandosi in un tuffo cromatico.
Infine il giovane Matteo Must, nato nel 1998 a Sant’Agata di Militello e particolarmente attento, nella sua arte, alla dinamica della materia e a come i pigmenti si muovono, colano e si espandono. Lavora molto con la spatola evocando la vastità del Tirreno, di un orizzonte lontano ma non sconosciuto, consapevole che navigando dietro quella linea si apre improvvisa la verde bellezza delle Eolie. Il cielo è un movimento rotatorio, il mare una greve campitura orizzontale, l’acqua spumeggiante un’intelligente traccia di bianco, liquido e soffiato a ventaglio. Scafi, vele e agonismo diventano macchie accennate, sensazioni visive apparse e già pronte a svanire. Anche in “Non ordine” c’è movimento, forse acqua, lo sciabordio dell’onda, lo spruzzo improvviso mentre si cambia la rotta: non è caos, ma tensione visiva di un momento difficile di cui ancora si è padroni. Di Must colpisce la capacità di scolpire con il colore: materia che evoca spazi, che si scioglie e dissolve, che nasconde e protegge a seconda diventi cielo, spuma o mare.
di Massimiliano Reggiani EmmeReports
Ricerche ed editing a cura di Monica Cerrito
“Orizzonti di luce: sette sguardi sull’onda delle emozioni”
Raffaello Centro d’Arte
Palermo, Via Notarbartolo 9/E
dal 11 giugno al 31 luglio 2021
vernissage venerdì 11 giugno 2021 ore 18.00