Ieri, 08 giugno 2021, la bandiera italiana ha smesso di sventolare a Camp Arena, la base italiana di Herat, nel lontano Afghanistan. Dopo quasi venti anni, è terminata la missione per il contingente italiano nel continente asiatico. Un capitolo della vita di chi ha respirato la sabbia afghana, si chiude per sempre. Avremmo voluto andare per un’ultima volta, per documentarne la fine della missione, ma il Ministero della Difesa ha permesso a pochi fortunati di farlo, nonostante le reiterate richieste di molti noi embedded, tra cui Lorenzo Peluso, uno dei giornalisti di guerra più competenti in Italia, con cui ho avuto l’onore di condividere una missione nel 2018. Chi meglio di lui per raccontare, per l’ultima volta, il “nostro” Afghanistan.
“Ho avuto il privilegio, lo ritengo tale, di aver vissuto frangenti della mia vita in un luogo lontano. Sono stato un fortunato, uno tra quelli che ha potuto vedere con i propri occhi, ascoltare, osservare, fotografare, un mondo distante dal nostro. Tanto diverso ma tanto uguale. Ho provato, spesso sono certo senza riuscirci, a raccontarlo. Non mi assolvo per questo, ma sono consapevole di quanto sia complessa la realtà dell’Afghanistan per raccontarla a coloro che non l’hanno mai conosciuta.
Confesso, di aver vissuto per alcuni anni, nell’attesa di poter ripartire, di tornare in quei luoghi. Ho avuto il privilegio, dicevo, perché spinto dalla necessità di comprendere, di vedere e di far conoscere, volta per volta, ogni piccolo progresso conquistato dal sangue versato, giorno dopo giorno, lungo le strade polverose dell’Afghanistan. Quei piccoli progressi di democrazia, di libertà, alcuni dicono di civiltà, di un popolo multiforme, che non ha un’anima comune.
L’ho scritto anche, il popolo afghano non esiste; questo dettaglio è sfuggito a molti in questi anni dove le forze della Coalizione internazionale, tra cui i militari italiani, hanno provato, tentato, spesso con successo, di realizzare quel mondo di modernità che appartiene alla società occidentale.
Non è un discorso semplice da farsi e non è neppure facile comprendere quel che affermo, ne sono cosciente. Vorrei offrirvi giusto qualche elemento di riflessione, oggi, perché da ieri il Tricolore che sventolava a Camp Arena, ad Herat, è stato ammainato.
Siamo (dico siamo come italiani) stati li dal 2003, con piena operatività dal 2004 ed è chiaro che non potevamo restare li per sempre; tutti sapevano che questo giorno sarebbe arrivato, prima o poi. Il tempo è però quel fattore che più di ogni altro subisce l’influsso della relatività; è poco o troppo poco per alcuni. E’ tanto, troppo per altri. Nello spazio di questa linea temporale tra quel 2003 e la giornata di ieri, intanto, sono accaduti tanti fatti; si sono consumate tante storie.
Ad esempio, quella di Giuseppe La Rosa, quel ragazzone 31enne, originario del messinese, che la mattina del 8 Giugno 2013, verso le 10.30 locali (le 07.00 in Italia) si trovava a bordo di un VTLM “Lince” appartenente ad un convoglio del Military Advisor Team della Transition Support Unit South (TSUS) che stava rientrando nella base di Farah, dopo aver svolto un’attività in sostegno alle unità dell’esercito afghano. Giuseppe era un Ufficiale addetto all’Ufficio Operazioni ed Addestramento del 3° Reggimento bersaglieri, era partito in missione in Afghanistan a marzo del 2013 e sarebbe dovuto rientrare in Patria a settembre 2013. Accadde tutto in pochi minuti. Ho ricostruito i fatti, raccogliendo negli anni, le testimonianze dei militari che rimasero gravemente feriti in quell’attentato, tra questi un sottoufficiale di Altavilla Silentina, nel salernitano. Giuseppe rimase ucciso dallo scoppio di una granata lanciata all’interno del blindato, penetrata nel Lince dalla botola occupata dal mitragliere (la cosiddetta “ralla”) posta sopra il veicolo cadendo sul sedile posteriore destro occupato dal capitano La Rosa che con il suo corpo fece da scudo per i suoi compagni, altri tre militari, che rimasero feriti.
Il vile attacco fu sferrato da un ragazzo, di circa 20anni, che si avvicinò al convoglio, nella confusione delle strade afghane, lanciò la granata per poi dileguarsi tra la folla di un vicino mercato. Era dunque l’8 giugno del 2013. L’8 giugno del 2021 l’ammaina bandiera del Tricolore ad Herat.
53 i militari italiani che hanno lasciato la loro vita in Afghanistan. Vi assicuro che la loro morte non è stata vana. Se oggi esiste il “Giardino delle donne” ad Herat, un luogo sicuro, rifugio per donne maltrattate ed a rischio di morte, gli afghani lo devono anche a questi 53 ragazzi in mimetica. Se esiste la biblioteca ad Herat, lo si deve anche a loro. Se ci sono ponti, scuole, che prima non esistevano, lo si deve anche a loro. Se ci sono la metà dei burqa in giro per le strade di Kabul, se un passo in avanti è stato fatto sulla strada stretta dei diritti delle persone in Afghanistan, lo si deve anche a loro.
Certo, da domani sarà altro in questo Paese. Tra tutte le forze della coalizione internazionale che stanno lasciando il Paese, non ce ne voglia nessuno, ma l’assenza degli italiani la si avvertirà di più, ne sono certo. Avvertiranno l’assenza dei soldati italiani i bambini dell’orfanotrofio di Herat, le donne e gli uomini rinchiusi nel carcere di Herat. I tossicodipendenti curati nella clinica specializzata ad Herat. I bambini che frequentano la scuola Maria Grazia Cutuli a Kabul. Potrei continuare così, per molto tempo. Tuttavia, forse, non tutto finirà del tutto. E’ opinione diffusa nei governi NATO che non si può lasciare del tutto l’Afghanistan nelle mani dei talebani che, giorno dopo giorno, si stanno riprendendo il Paese. E’ una pagina ancora da scrivere questa. Intanto è ora di suonare il silenzio, ancora una volta, magari di sera, sul tardi, al centro di Piazza Italia, a Camp Arena, sotto il cielo stellato più bello del mondo, per salutare Giuseppe e quei 53 italiani che, di questo sono certo, vogliono rimanere li, per sempre”.
Di Lorenzo Peluso – EmmeReports
Foto di Francesco Militello Mirto – EmmeReports