Conosciamo Francesca Tulli per le sue opere “Mutanti” che abbiamo raccontato per la mostra alla KOU Gallery di Roma curata da Massimo Scaringella. La sua ricerca ha portato a forme assolutamente nuove e inesplorate, dove l’essere umano viene riconosciuto come parte di un equilibrio più articolato e complesso. Intervistiamo ora Francesca Tulli sulla serie di opere in bronzo “Armi bianche”, dove si affronta un aspetto dell’umana natura tenuto quasi sempre nascosto: la potenziale aggressività. Per realizzare queste sculture antropomorfe l’artista ha plasmato la cera in forme allungate, stringendo e deformando i corpi fino a renderli così sottili ed eterei, pungenti ed affilati da accorgersi improvvisamente di quanto sia facile impugnarli e viverli come un’estensione del proprio corpo. Francesca Tulli ha riscoperto nella propria manualità l’arte di creare un oggetto capace di concentrare la forza, lo slancio, il bisogno primordiale di affondare il proprio gesto nel mondo.
Come è nata questa intuizione, da quali ricerche ha preso origine?
La prima serie di “Armi bianche” è stata esposta nel 2008 in occasione della mia doppia personale a Roma, nella Galleria Maniero e da InternoVentidue Arte Contemporanea, curata da Jonathan Turner. Le “Armi bianche” sono pugnali, spade, spilloni con impugnatura antropomorfa e costituiscono una variante della serie di sculture intitolate “Mutanti”, figure umane ibride: esseri misti uomo-pesce, uomo-serpente, uomo-vegetale. I soggetti delle mie sculture, che siano figure interamente umane o ibride, non si sostengono in generale sulle proprie gambe, ma restano in equilibrio pur essendo, quasi tutte, a testa in giù; da queste ricerche ha preso avvio una serie di opere in cui gli arti inferiori si trasformano in lame o spilloni acuminati. La scultura, oltre che visiva, è un’esperienza tattile e io ho voluto esasperare questa sensazione. Come giustamente affermato, il processo di realizzazione modellando la cera con le mie mani conserva il fascino primordiale della creazione di un manufatto: prima che armi, queste sono per me creazioni da toccare e maneggiare come un’estensione del corpo. Nelle mie sculture la metamorfosi della figura non vuole essere solo esteriore, formale, ma tende a esprimere l’idea di un essere umano impegnato in un dialogo profondo con sé stesso, è materia emotivamente mutevole, volta al passato, consapevole del presente e proiettata verso il futuro.
Queste sculture hanno un indubbio valore estetico ma al tempo stesso sono adatte per essere afferrate e strette con forza, sono pensate per la presa manuale. Vengono presentate con l’immagine del gesto, esasperato da colori violenti, da effetti di negativo fotografico che ribaltano in piena luce il colore scuro del metallo rendendo ancora più esplicito il nome di armi bianche. Queste mani muscolose e forti sembrano trattenere oggetti incandescenti, arroventati dall’impulso a colpire, capaci di racchiudere il tumulto delle emozioni.
Cosa può stimolare nell’osservatore la serie di “Armi bianche”, ribellione, rabbia, aggressione?
Le mie “Armi bianche” sono certamente espressione di un’inquietudine insita nella natura umana e diventano un condensato di energia latente che può risvegliarsi nei più diversi aspetti, ho voluto fondere in un’unica opera la concretezza della scultura e la capacità evocativa dell’immagine fotografica. La minaccia delle “Armi Bianche” si alimenta nel silenzio e prelude più ad un atto di ribellione che di provocazione. Si tratta di oggetti “pericolosi”: lasciati riposare inerti sulla loro base mantengono intatto il loro valore “estetico” ma afferrarli significa dare loro energia e funzione. Afferrare un oggetto e farne uno strumento è un atto atavico che appartiene all’essere umano ma è comunque il singolo individuo che decide come utilizzarlo, come utensile o come arma, per aggredire o difendersi. Le foto elaborate in digitale inserite nelle basi che accompagnano le sculture sono un suggerimento e un monito.
Nella serie “Acuminati” di ogni scultura è visibile solo la parte antropomorfa, quasi sospesa sulla verticale. In maniera simbolica la parte sottile e allungata viene nascosta in un letto di sabbia, nella terra; per poterle impugnare è necessario dissotterrarle, portando alla luce l’elemento offensivo. Le figure hanno pose rituali, corone solari, gesti di protezione o protendono le braccia nello spazio.
Dietro ogni fissità, alle spalle dei riti, esiste sempre una violenza cristallizzata e nascosta, capace improvvisamente di emergere: è un loro possibile significato?
Le sculture di questa serie, anche se ispirate a manufatti arcaici, rappresentano piccoli idoli che appartengono ad un’ipotetica nuova mitologia, guardano al futuro più che al passato e sono affondate nella sabbia in uno stato di attesa, di sospensione; la loro pericolosità è nascosta, celata, ma certamente pronta a svelarsi. Come le altre “Armi Bianche” sono la metafora dell’uomo stesso ed evidenziano quella componente aggressiva che si nasconde in ognuno di noi ma che è meglio non risvegliare. Come un atto provocatorio può essere inaspettato, così anche una reazione di difesa o ribellione può stupire e cogliere di sorpresa.
“La lama dei tuoi capelli nasconde dolci crudeltà” va impugnata con lo stesso gesto che spesso vediamo nell’iconografia di Giuditta, colta subito dopo aver ucciso l’ormai ebbro comandante Oloferne. È un’opera che parla del mondo femminile, dei capelli come arma di seduzione, del divieto alle donne di mostrarli, un obbligo che troviamo in tutte le grandi religioni monoteiste.
Quindi l’arte, oltre ad essere un’espressione creativa, è anche capace di affrontare grandi tematiche sociali?
Le chiome che, in alcune mie opere, si trasformano in lama, rimandano ad un pensiero sulla condizione femminile volutamente provocatorio. Senza soffermarci sulla narrazione, che è limitativa, ogni opera o serie di opere, con i suoi significati e suggestioni, contribuisce ad esprimere la poetica che pervade la mia produzione artistica. L’arte deve porre interrogativi, non dare risposte, deve solo suggerire. Se l’opera esprime il proprio tempo è in ogni caso legata al sociale; l’importante è che non diventi retorica o didascalica. Nell’indeterminatezza c’è il tutto.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports
Ricerche ed editing a cura di Monica Cerrito