È ormai mia abitudine aprire, di tanto in tanto, il prezioso scrigno dei ricordi e lo farò anche oggi per presentarvi l’ennesima e irrinunciabile squisitezza palermitana, ovvero la sfincia di San Giuseppe.
Avendo un papà pasticciere che ha gestito una pasticceria per più di 40 anni, non potrei non ricordare i fatidici giorni di festa in cui venivano preparati, a seconda della ricorrenza, i dolci tipici della tradizione siciliana.
Erano gli anni ’80, quando la nostra produzione tipica raggiungeva parecchi angoli dell’Italia settentrionale che gli anziani chiamavano “il Continente” e molti clienti, non potendo raggiungere personalmente parenti e amici, ricorrevano a noi per le “dolci spedizioni”. Oggi invece, in tante città italiane, è possibile trovare gastronomia e pasticceria tipiche siciliane e non, e grazie a google, inoltre, siamo ormai capaci di preparare e portare in tavola di tutto un po’. In quegli anni ci affidavamo soltanto alle spedizioni, la cui procedura era un po’ più complessa perché non online, ma “on penna carta e modulistica” con maggiorazione “abbondante” per la posta aerea che accelerava i tempi di consegna. Proprio avvalendosi di questa “modalità” costosissima, un nostro cliente ordinava le sfince di San Giuseppe da recapitare all’azienda “Fila” dove, peraltro, lavorava anche mio zio che non solo le mangiava insieme ai colleghi, ma tornando a casa continuava con quelle portate da mia nonna che andava a trovare il resto della famiglia proprio in quel periodo. Così anche mia zia e i miei cugini avevano la loro abbondante razione di sfince di San Giuseppe, preparate dallo zio Enzo pasticciere e sebbene non esistessero artifizi, quali miglioratori e conservanti vari, quelle soffici e voluttuose squisitezze arrivavano intatte a destinazione.
Un altro ricordo riguarda il backstage della sfincia, ovvero stare a guardare mio padre e chi lo collaborava mentre preparavano l’impasto e friggevano senza sosta. Il giorno di San Giuseppe il fumo della frittura superava di gran lunga il fumo di Londra, generato un tempo dagli innumerevoli camini londinesi, e quando uscivamo dal laboratorio olezzavamo talmente tanto di sfince da essere appetitosi. Le piccole porzioni di impasto venivano gettate nell’olio bollente e si trasformavano immediatamente, raddoppiate di volume, in sfince perfettamente dorate e leggere… poiché galleggiavano sull’olio, ma un po’ meno leggere da digerire.
L’origine si fa risalire ad alcuni dolci arabi o persiani fritti nell’olio dalla consistenza spugnosa e forma irregolare, così come la sfincia e proprio per questo il nome rimanda al termine arabo isfang che significa spugna. In alcune borgate viene chiamata spincia, forse per inconsce reminiscenze latine (spongia) mentre alcuni rappresentanti delle classi più abbienti, quindi più raffinati, la chiamano sfingia che non esiste come termine, ma che fa di certo litigare antenati egizi e latini, divisi tra sfinge e spongia.
L’antica preparazione araba con il miele, venne trasformata in quella che conosciamo, dalle suore del monastero delle Stimmate di San Francesco che aggiunsero la ricotta dedicando il dolce a San Giuseppe, il papà per eccellenza, umile e buono come gli ingredienti utilizzati. L’altro elemento che completa la buonissima sfincia è quindi la ricotta che nella nostra pasticceria arrivava dalle Madonie il giorno prima della festa. Veniva consegnata in quantità industriali nelle cosiddette “fascelle”, ovvero cilindri costituiti da lunghi listoni in legno, da cui fuoriusciva il siero gocciolante.
Nel corso degli anni, per garantire una maggiore igiene, le fascelle sono state sostituite da contenitori forati in plastica sigillati singolarmente, ma la bontà della nostra ricotta è rimasta invariata negli anni.
Morbida e dal sapore unico, secondo alcuni scritti, furono gli Egizi a lavorarla così come la conosciamo oggi e se ne trova traccia anche in uno dei passaggi importanti dell’Odissea, quando Odisseo si imbatte in Polifemo. Quest’ultimo, nel momento in cui si accorge della presenza dell’uomo, stava proprio lavorando la ricotta e l’eroe si ferma a gustare quello che solo apparentemente sembrava latte rappreso. Anche nell’Antica Roma era molto gradita e secondo Virgilio sarebbe stata scoperta da Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, che imparò dalle ninfe a lavorare il latte, coltivare gli ulivi e allevare le api. Una delle testimonianze che confermano quanto i romani amassero tanto la ricotta si trova in un affresco nel tempio di Iside, a Pompei, in cui è raffigurato un canestro colmo del bianco e morbido latticino, ottenuto dopo una doppia cottura (recocta).
Secondo la tradizione cristiana, invece, San Francesco insegnò ai pastori del Lazio la tecnica per ottenere una ricotta più delicata e prelibata. La ricotta può essere ottenuta anche da latte vaccino, caprino e anche misto, ma quella più utilizzata è solitamente la ricotta di pecora, insostituibile “copertura” e ripieno della sfincia di San Giuseppe. Definirei sublime l’incontro tra la morbida e spugnosa pasta fritta, impercettibilmente salata, e la ricotta dolcissima condita con gocce di cioccolato fondente. Spero che ogni famiglia della mia città così come nel resto del mio Paese, ognuna con le proprie tradizioni, oggi possa trascorrere una dolce giornata e una serena festa del papà, in un momento storico particolarmente amaro.
RICETTA PER ca 15 SFINCE
Ingredienti:
500 gr di farina 00
125 gr di strutto
10 gr di sale
6/8 uova
5/600 di ricotta zuccherata con 150 gr di ricotta (se risulta troppo dura, aggiungere un alto po’ di zucchero)
Gocce di cioccolato
Olio di semi per la frittura
Preparazione:
Mettere sul fuoco un tegame con mezzo litro d’acqua, la sugna e il sale. Non appena tutto è sciolto unire la farina mescolando affinchè non si formino grumi e appena inizia l’ebollizione, aggiungere le uova una per volta e amalgamare fino a ottenere un composto liscio e omogeneo. Deve staccarsi dalle pareti del tegame. Fare scaldare abbondante olio e friggere piccole porzioni del composto che raddoppieranno di volume e girarle con un cucchiaio di legno, fino a che non si saranno dorate. Una volta fritte, disporle su un vassoio, lasciarle raffreddare e completare il tutto con la ricotta che, a seconda del gusto personale, potranno essere riempite anche all’interno o soltanto ricoperte all’esterno.
Buon San Giuseppe e auguri a tutti i papà!
di Monica Militello Mirto – EmmeReports