Christian Boltanski è un autore in permanenza al RISO – Museo d’arte Moderna e Contemporanea della Sicilia ed è uno fra i grandi dell’arte contemporanea.
La sua opera può essere pienamente compresa solo uscendo dagli schemi in cui siamo stati abituati a leggere la storia dell’arte. A maggior ragione questo avviene se, come a Palermo, si vive ogni giorno in uno spazio fatto di tracce del passato e opere millenarie, stratificate e sempre presenti, dai palazzi sontuosi sui viali ai vicoli contorti del tracciato medievale.
È importante avvicinarci a Boltanski con intelligenza e mente aperta: se ne resta sicuramente affascinati. È definito un artista concettuale, ma cosa significa esattamente? Negli anni Sessanta furono create due opere simili, una in Spagna e l’altra negli Stati Uniti: la prima presentava una cerilla, cioè un fiammifero, l’immagine della parola scritta e il disegno dell’oggetto. La seconda una sedia, la sua fotografia e la descrizione del sostantivo chair, cioè sedia. L’osservatore fu stimolato ad interrogarsi sull’oggetto, sulla sua rappresentazione, sulla descrizione dello stesso, sul suono che lo indica. L’Arte concettuale non ha messo in secondo piano la realtà fisica, ma privilegia e sollecita il meccanismo mentale di conoscenza e appropriazione della realtà stessa.
Al museo Riso il corpus di riferimento dell’evento “Luce da luce” sono le opere di Boltanski, tutte nella collezione permanente. Sono giochi di ombre, fotografie, tessuti retroilluminati o sottolineature di oggetti fatte con righe luminose. Si comprendono con facilità solo guardando all’opera complessiva di Christian Boltanski, nato a Parigi in piena guerra mondiale, il 6 settembre 1944, da padre ucraino e madre corsa.
L’artista, da bambino, ascoltò infiniti racconti e testimonianze di chi sopravvisse all’Olocausto; coltivò un’idea del mondo basata sui ricordi, sui frammenti di vita, sulla speranza di un futuro improvvisamente cancellato. Boltanski aveva capito che sia nei sopravvissuti che nell’umanità in generale la memoria gioca un ruolo essenziale, pur riconoscendo quanto impari sia la lotta fra la memoria e il tempo. Per lui ogni memoria individuale ha un valore assoluto, perché in ognuno esiste un’esclusiva e totalizzante percezione del mondo, in ognuno si forma una mitologia individuale.
Proprio su questa mitologia individuale Boltanski compie le proprie scelte artistiche: la memoria non comprende eroi ma altre persone che si perpetuano nel ricordo. Opera con oggetti, immagini, frammenti capaci di far volgere il nostro sguardo sul passato, di renderci empatici con le storie degli altri fino a comprendere che alla fine tutto si confonde in un’unica grande storia collettiva. L’artista ha il ruolo di evocare e poi sparire, di non interferire nel percorso emozionale che ha suggerito. Boltanski crea la premessa perché nasca questa sconvolgente empatia tra chi sta osservando e il fluire delle generazioni. Diventa arte concettuale perché non focalizza l’attenzione sull’oggetto ma sulla reazione emotiva che la sua comprensione scatena. L’opera diventa un percorso della mente, una nuova consapevolezza più vicina ad una conquista filosofica, ad una crescita morale.
Christian Boltanski raccoglie e unisce tracce di uomini, avvicina ritratti, sceglie e presenta abiti logori che portano i segni e le pieghe dell’uso: sono materiali effimeri in cui è evidente che non ci sia più chi li ha posseduti, voluti, conservati. Eppure la loro presenza contribuisce a riattivare nell’osservatore la memoria della persona che li ha vissuti; se le tracce sono ricombinate, se non rispondono a una logica scientifica o archivistica il risultato non cambia.
Chi guarda l’opera si sente comunque connesso ad un’intricata rete di affetti, di presenze, di legami che sono anche i propri, in un tutto indistinguibile. Le fotografie di “Monuments”, i teli di “Veronique”, il vissuto di “Cappotti neri” nascono tutti da questa logica, dall’assemblaggio di elementi tanto eterogenei nella realtà, quanto unitari e connessi nella percezione. Boltanski dice della propria arte che è vicina al minimalismo ma, allo stesso tempo, è ricca di sentimenti. Per l’artista le suggestioni devono rimanere aperte ma le sue scelte inesorabilmente ci guidano. Per questo abbiamo parlato di crescita morale, perché Boltanski pur essendo figlio della guerra, così come suo padre fu testimone dell’Olocausto e dell’immane tragedia ucraina, decide di non percorrere la strada manichea del bene e del male, dell’eroe e del conquistatore, della vittima e dell’accusatore.
Nelle memorie che crea nessuno ha radici superiori, nessuno nasce da aguzzini o è vittima predestinata: ognuno contiene in sé il mondo e la salvezza, ognuno è all’infinito figlio, nipote, nonno, genitore. La luce svela un numero illimitato di storie e di affetti, di individui unici e al contempo effimeri. Solo se si guarda altrove, smarrendo le proprie radici, l’uomo incontra quanto di demoniaco, inconoscibile e spaventoso alberga negli abissi della propria mente. È il tema della fiaba, dell’insegnamento che ci induce ad accettare i limiti, è il contrario dell’epopea, degli Argonauti, dell’uomo solo al comando.
Boltanski segna un confine netto tra e la dissociazione e l’empatia. Non presenta mondi ignoti da conquistare, vertigini in cui tuffarsi, mondi migliori da raggiungere ad ogni costo. È il valore morale della sua arte, che invita a non lasciarci ammaliare dai miraggi, lui che è nato fra le macerie sociali di un’Europa condotta per due volte al disastro, fra deportazioni e guerre civili, genocidi e capri espiatori.
Al Museo Riso abbiamo uno spazio di luce tagliato da sagome angoscianti, è “Theatre d’ombres” un’installazione che si può vedere solo scostando cortine di tessuto, aprendo il sipario sui labirinti malati dell’ego. Rappresenta il contrario di quel senso di appartenenza che, pur nella loro malinconia, “Monuments”, “Veronique” e “Cappotti neri” riescono a darci.
“Luce da luce” Riso – Museo d’arte Moderna e Contemporanea, Cappella dell’Incoronata, Palermo
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports