Che Emergency e il suo fondatore Gino Strada siano sempre stati contro ogni tipo di guerra o intervento militare come soluzione per eventuali problemi internazionali non è mai stato un mistero. Posizione dovuta molto probabilmente per il fatto che i medici, chirurghi e infermieri della ONG milanese hanno visto, nel corso degli anni, gli effetti a volte devastanti su civili e militari rimasti feriti nei vari teatri di guerra.
Il primo progetto di Emergency fu in Ruanda, dove ristrutturò e riaprì il reparto di chirurgia dell’ospedale di Kigali riattivando il reparto di ostetricia e ginecologia.
Da allora è intervenuta in 18 Paesi, costruendo ospedali, centri chirurgici, centri di riabilitazione, centri pediatrici, posti di primo soccorso, centri sanitari, ambulatori e poliambulatori, ambulatori mobili, un centro di maternità e un centro cardiochirurgico. Quasi 10.000.000 di persone curate nel mondo.
Per confutare l’erronea convinzione che Emergency non sia impegnata nell’emergenza sanitaria nazionale abbiamo intervistato Francesca Bocchini che lavora all’interno del Field Operations Department, l’ufficio che si occupa di supportare e coordinare i progetti di Emergency, con il ruolo di Project Support Manager.
Cosa fa Emergency nell’emergenza Covid-19?
In questo momento abbiamo degli interventi in Italia, in supporto alle autorità nell’emergenza Covid-19. Abbiamo predisposto subito un sistema di triage, di intervista e verifica dei sintomi dei pazienti, prima che accedano alle nostre strutture, per identificare possibili casi sospetti e indirizzarli alle autorità preposte alla gestione dell’emergenza, fornendo informazioni relative al virus. Tanti nostri pazienti sono persone particolarmente vulnerabili, per cui non diamo per scontato che abbiano accesso a tutte le informazioni disponibili, quindi un’azione di sensibilizzazione delle fasce più deboli.
All’estero, invece, dove abbiamo degli ospedali con strutture più complesse, dove usiamo un sistema di pre-triage, che si focalizza sulla patologia Covid, abbiamo un sistema di compartimentazione dell’ospedale, che stiamo proponendo anche alle strutture in Italia, come Brescia e Bergamo, una compartimentazione degli spazi, delle persone e degli oggetti, che rispecchi il più possibile la distinzione tra pazienti positivi, sospetti, negativizzati e asintomatici. Altri due progetti sono: il servizio Domiciliarità e il progetto accoglienza La Domiciliarità e l’Accoglienza sono stati attivati su richiesta del Comune di Milano, con cui lavoriamo assiduamente.
Cos’è il servizio di Domiciliarità?
Per la Domiciliarità abbiamo un servizio di centralino, cui si può accedere tramite Milano Aiuta 020202 (piattaforma del Comune di Milano), che ci gira le telefonate di persone che hanno necessità di avere beni essenziali, come spesa e farmaci. Il servizio è completamente gratuito e gestito da circa 200 volontari di Emergency e delle Brigate di Solidarietà di Milano, sotto il coordinamento di Emergency, che si impegnano a consegnare spesa, farmaci e beni di prima necessità a chi è impossibilitato a uscire di casa. I nostri volontari, formati quotidianamente dal nostro staff, prendono tutte le precauzioni dovute come mascherine e gel. Le persone che possono accedere a questo servizio sono gli over 65, le persone sottoposte all’isolamento fiduciario o alla 40ena perché sospette di avere il Covid-19, persone con determinate vulnerabilità. Facciamo più di 150 servizi di consegne al giorno.
Il secondo progetto invece?
Per l’accoglienza il Comune di Milano ci ha chiesto di fare dei sopralluoghi in alcune strutture da loro identificate che ospitano senza fissa dimora, rifugiati, minori stranieri non accompagnati, minori che hanno entrambi i genitori ricoverati, anche italiani, non necessariamente stranieri, che non hanno una rete amicale o parentale che li possa ospitare durante il periodo di isolamento fiduciario a cui sono sottoposti.
Come funziona nella pratica?
Facciamo un primo sopralluogo con un team composto da una infermiera e un logista, per valutare con l’ente gestore se ci siano delle eventuali criticità nell’applicazione di tutte le norme che il ministero della salute e la presidenza del consiglio dei ministri hanno chiesto per prevenire il contagio. Verifichiamo se ci sono delle stazioni di clorina, proponiamo infatti l’utilizzo di clorina diluita nell’acqua per il lavaggio mani, soprattutto in dormitori dove ci sono centinaia di posti letto, più agevole del dispenser di sapone.
Quindi si studiano i flussi e le turnazioni del personale, onde evitare assembramenti, la possibilità di isolare casi sospetti all’interno della struttura. Gli operatori vengono formati dal nostro staff su tutte le norme igieniche da adottare per contenere il virus, per isolare correttamente un caso sospetto e quando contattare il medico competente.
In quali città siete presenti e che tipo di personale avete attualmente operativo?
Siamo presenti oltre Milano, a Brescia dove offriamo un servizio di consulenza sulla compartimentazione delle strutture.
A Bergamo ci è stato chiesto di gestire interamente il reparto di terapia intensiva e sub intensiva dell’Ospedale della Fiera, costruito dagli Alpini, con 12 posti letto, (il numero si riferisce ai posti che EMERGENCY ha in carico di gestire, l’ospedale ne avrà molti di più) dove metteremo a disposizione una trentina tra medici, infermieri, staff di supporto, tecnici di radiologia, fisioterapisti, OSS, che parteciperanno attivamente al trattamento dei pazienti. Attualmente tutto il nostro personale si sta formando per essere pronto a breve, probabilmente nel fine settimana, a iniziare le attività cliniche.
Gino Strada ha messo in evidenza l’infettività e la necessità di proteggere gli ospedali. In che modo?
Siamo stati invitati a Brescia e a Bergamo ad applicare quello che stiamo facendo nei nostri progetti, come la compartimentazione degli spazi, delle persone e degli oggetti, ovvero spostare le persone e le cose il meno possibile, differenziare le varie tipologie di pazienti, fare in modo che lo stesso personale non passi da un reparto all’altro senza le dovute precauzioni, diventando esso stesso vettore del virus, quindi personale dedicato per ogni singolo reparto. La nostra esperienza viene da Ebola in Africa, un’esperienza diversa, in cui cambia anche il tipo di trasmissione o anche il tipo di protezione usato dal personale sanitario.
Afghanistan, Iraq, Africa. Come garantite la sicurezza del personale?
Siamo in Afghanistan, Iraq, Sudan, Sierra Leone, Uganda, Italia. Prima di intervenire in un determinato Paese viene fatta una dovuta valutazione sulle condizioni di sicurezza che garantiscano la sicurezza del nostro personale. Portando cure di alta qualità in maniera imparziale e neutrale, che sono precondizioni che necessitano qualsiasi intervento umanitario, parlando con tutte le parti coinvolte, mantenendo aperto il dialogo, ricevendo pazienti da tutte le fazioni.
Ad esempio in Afghanistan le parti in conflitto non hanno interesse a far si che il nostro ospedale chiuda, altrimenti non ci sarebbe accesso ad una salute di qualità per nessuno. La qualità e la gratuità delle cure sono sempre state portatrici di pace nelle zone di conflitto. Nei nostri reparti fazioni normalmente in guerra fra loro, si trovano in letti vicini e guariscono insieme. Nel momento in cui un ONG si appoggia ad una parte in conflitto o ad una forza militare che magari appoggia una fazione piuttosto che un’altra, la neutralità può essere compromessa. . La sicurezza dei nostri ospedali è affidata a guardie civili non armate locali che hanno un contratto con Emergency preposte a verificare che nessuno acceda con armi all’interno delle nostre strutture.
Un’altra valutazione che facciamo prima di iniziare un intervento è la localizzazione del posto, ovvero non deve essere vicino a una caserma o a una centrale di polizia, sia per evitare di diventare un possibile target da colpire, sia per dare la possibilità a persone di varie fazioni di accedere all’ospedale.
C’è posto per la paura, il timore di restare infettati quando si interviene su un paziente di Covid-19 così come di Ebola?
Chi non ha paura è uno sciocco, mi viene da dire. Il personale sanitario quando viene adeguatamente formato ed equipaggiato con tutti i dispositivi di sicurezza, dovrebbe essere messo nelle condizioni di svolgere il lavoro tranquillamente. Noi cerchiamo di addestrare lo staff a come comportarsi. Ma è umano avere timore.
È importante il lato umano nel vostro lavoro?
In una situazione di emergenza i ritmi lavorativi sono talmente elevati che si ha poco tempo di soffermarsi troppo sulle singole storie o forse è anche una forma di autodifesa. Ovviamente ci sono alcune situazioni che ti colpiscono! Per esempio, nel mio caso, io non avrei mai potuto pensare alla possibilità di aprire un centro per minori i cui genitori sono entrambe ricoverati per il coronavirus. Per me è stato un colpo al cuore!
Spesso siete accusati di interessarvi di più agli stranieri che agli italiani…
Noi siamo ben consapevoli di tutte le polemiche che sono state sollevate contro le ONG e come operatori del settore sanitario ci ferisce enormemente, perché noi operiamo indistintamente sia per gli italiani sia per chiunque altro, per noi il diritto alla salute è un diritto universale. Non dovrebbe implicare nessun tipo di discriminazione. Siamo sul territorio italiano dal 2006! Speriamo che con il nostro lavoro per l’emergenza coronavirus, risalti di più il nostro impegno a favore della popolazione italiana!
Spesso noi giornalisti usiamo la parola “guerra” per parlare della lotta al Covid-19. Gino Strada ha detto che la “guerra” è un’altra cosa. Ma i morti ci sono in entrambe i casi. Non è così?
La guerra presuppone un conflitto dove ci siano delle parti che si scontrano, che siano armate, in questo momento mi sembra che siamo tutti unti nel combattere il virus. Un grossissimo sforzo di tutte le persone che sono impegnate negli ospedali, ma di tutta la società a cui la pandemia sta chiedendo un enorme impegno solidale. La guerra richiama a uomini nemici fra loro. Quindi non è questo il caso.
Di Francesco Militello Mirto – EmmeReports