Parleremo oggi della famiglia Gramsci resa famosa dall’intellettuale sardo comunista Antonio, ma nella quale è presente un personaggio di spicco del fascismo lombardo, di cui è stata distrutta quasi ogni documentazione scritta e fotografica.
Mario Gramsci, secondogenito, compare solo negli scritti del fratello Antonio o dalle ricostruzioni postume, fatte da studiosi gramsciani italiani e soprattutto esteri.
Quella che sto per raccontarvi, è una bella storia d’amore fraterno e di fedeltà ad un’idea più forte della prigiona e delle torture.
Due anni più giovane di Antonio, Mario Gramsci nasce il 9 febbraio del 1893 a Sorgono, in Sardegna da Francesco (1860-1937) e Giuseppina Marcias (1861-1932) cui seguiranno Carlo e Teresa.
Se Antonio era descritto come una persona fisicamente minuta, timida, riservata, pacata e solitaria; Mario era l’esatto opposto: robusto, solare, espansivo, simpatico, chiassoso, irrequieto e, soprattutto, pronto all’azione.
Nonostante la totale differenza fisica e caratteriale, i due sono cresciuti d’amore e d’accordo, trascorrendo nel loro paesino, la loro adolescenza in modo spensierato. Il loro passatempo preferito sembrava essere quello di produrre esternazioni poetiche, spesso a sfondo satirico, sui personaggi del loro paese.
Inizialmente, in Mario, sembrava esservi la vocazione per il sacerdozio e passò del tempo a studiare in seminario. Solo che ad un certo non resse più la cosa e scrisse cosi ai suoi genitori: “Voglio sposarmi, io l’idea di farmi prete non ce l’ho. Piuttosto mandateci Nino in seminario. Lui alle ragazze non ci pensa e il prete può farlo”.
Mario si arruolò nel regio esercito nel 1911, combatté nel primo conflitto mondiale e continuando la carriera dopo la guerra, raggiunse il grado di sottotenente.
Fascista della prima ora, fu dapprima segretario cittadino del PNF di Ghilarza (Prov. di Oristano) e successivamente trasferitosi a Varese, creò la casa del fascio di cittadino, dove ne fu il segretario, partecipando persino alla marcia su Roma.
Nonostante le divergenze politiche, i rapporti col fratello furono sempre ottimi. Anzi, più volte Antonio tento di dissuadere il fratello dalla militanza fascista perché gli avrebbe causato problemi con i compagni comunisti, amici del fratello. Ovviamente lui si rifiutò e fu così che alcuni comunisti organizzarono un agguato contro Mario, riducendolo in fin di vita a colpi di bastonate.
Quel tentativo di farlo tirare indietro non fece altro che rafforzare le sue convinzioni.
I rapporti tra i due continuarono a rimanere ottimi, anche dopo la prigionia del fratello e Mario continuò a scrivergli fino al 1927, ovvero sino a quando sua moglie Anna Maffei Parravicini, nobile lombarda, scrisse ai genitori dei due, una lettera dove lamentava che a causa della prigionia di Antonio, Mario non poteva essere nominato federale di Varese.
A riprova di quanto lamentato dalla moglie sembra proprio che dai registri ufficiali, nonostante fosse segretario della casa del fascio, Mario Gramsci non figurasse tra i federali fascisti.
Da quel momento, dopo essersi recato in carcere per chiarire col fratello, i rapporti si interruppero definitivamente.
E’ opportuno spiegare alcune dinamiche inerenti la prigionia, la malattia e la morte di Antonio Gramsci.
Va detto che per tutto il tempo in cui il fratello è stato incarcerato, Mario si adoperò personalmente affinché la pena del fratello fosse ridotta, sino alla sua scarcerazione.
In questa vicenda egli non era solo: a sostenere Mario vi erano Nicola Bombacci e vari componenti della casa del fascio di Varese.
Sia nella detenzione al confino di Ustica, che nel carcere di Turi che era definita una “clinica con le sbarre” in quanto il personale sanitario, contava più di quello carcerario che nella clinica Cusumano di Formia, Antonio Gramsci ebbe sempre un trattamento di riguardo e poté godere della compagnia della cognata Tatiana Schucht.
Tra le varie cose il linguista e docente di filosofia bagherese Franco lo Piparo, noto studioso gramsciano, in un articolo pubblicato dal Corriere della sera il 30 maggio 2016, ha analizzato una serie di punti parlando di una rete protettiva che Mussolini aveva posto attorno ad Antonio che, carte alla mano, smonterebbero il mito costruito da Togliatti e da tutti i seguaci, dal dopo guerra ad oggi.
In un estratto dell’articolo, cosi riporta: “Era accusato di avere attentato alla sicurezza dello Stato. In presenza di un tale capo di imputazione anche i regimi liberal-democratici adottano misure di rigido controllo di ciò che il detenuto scrive. Mussolini, se avesse voluto sequestrare i Quaderni, non aveva che da applicare leggi e regolamenti. Nessuna astuzia di compagni e cognata sarebbe stata efficace. I Quaderni uscirono dalla clinica col consenso o nel disinteresse totale del fascismo. Perché? Escluderei il ricorso all’inefficienza dell’apparato repressivo”.
Con il regio decreto del 5 novembre del 1932, Antonio Gramsci ottenne la riduzione della pena da 20 anni a 12 anni con possibilità di richiesta di lettera di grazia, il quale si rifiutò sempre di inviare.
Per diretto intervento di Benito Mussolini, il 25 ottobre del 1934, Gramsci ottenne la libertà condizionata e venne curato presso la clinica privata Quisisana, totalmente a spese dello Stato.
Nell’aprile del 1937 Antonio Gramsci ottenne la libertà totale per poi morire purtroppo il 27 dello stesso mese.
Scritto questo, è evidente come i fatti smontano completamente quanto insegnato a scuola secondo cui Antonio Gramsci morì in carcere.
Mario, abbandonato l’incarico di segretario del fascio, aprì una ditta dove commerciava prodotti coloniali fino al 1935, ovvero quando partì come volontario per l’Africa orientale.
Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, da uomo dallo spirito avventuriero ed irriducibile quale era, all’età di 47 anni combatté sul fronte libico fino alla caduta del regime fascista del 1943 e tornato in patria, decise di rimanere fedele al fascismo aderendo alla Repubblica Sociale Italiana.
Catturato dai partigiani e consegnato agli alleati, fu classificato come prigioniero “non collaborativo” e fu trasferito in Australia in un campo di prigionia destinato agli irriducibili.
Quei campi di prigionia furono nominati da Giampaolo Pansa nel suo libro i “Prigionieri del silenzio”.
Nonostante la prigionia, Mario Gramsci, non rinnegò mai il fascismo.
Fu rimpatriato nel settembre del ’45 e due mesi dopo, morirà abbandonato e dimenticato, con soltanto i suoi figli accanto a lui nel letto di morte.
Scritto questo mi preme affermare che Mario Gramsci non appare in nessuna delle biografie dedicate al fratello Antonio, di lui sono state eliminate documentazioni di ogni genere.
Mario si è fatto in quattro per aiutare Antonio, durante la sua prigionia e, sono certo che anche avrebbe fatto lo stesso l’intellettuale comunista per il fratello imprigionato in Australia.
L’annullamento di Mario Gramsci da parte della damnatio memoriae, attuata dai vincitori della guerra perché personaggio scomodo, rimane la più grande forma di mancanza di rispetto nei confronti dello stesso Antonio Gramsci.
di Vittorio Emanuele Miranda – EmmeReports