“Mi sentirei tradita. Non dimentichiamoci che Pertini, quando per la liberazione di Cirillo le Brigate Rosse chiesero soldi e armi, e Cutolo ha girato impunemente il paese, poi l’ha spedito in Sardegna”.
Così ha risposto il celebre personaggio televisivo Rita dalla Chiesa all’Androkonos, quando le chiesero sulla possibile scarcerazione del Boss Raffaele Cutolo verso la fine di aprile di quest’anno. Così diceva una persona che ha perso il padre, per aver dato il proprio contributo nella lotta contro la mafia.
Nel 38° anniversario dalla sua scomparsa, vogliamo ricordare quello può essere definito senza dubbio un uomo di servizio.
Carlo Alberto dalla Chiesa nasce al Saluzzo (CN) il 27 settembre del 1920 da Romano dalla Chiesa e Maria Laura Bergonzi.
Entrò nel 1941 nel Regio Esercito, dapprima frequentando la Scuola allievi ufficiali di complemento di Spoleto, in seguito prestò servizio in fanteria come sottotenente nel 120º Reggimento Brigata Emilia, partecipando per 10 mesi alla occupazione del Montenegro, per la quale ricevette due croci di guerra al valore.
Nel 1942 passò nei reali carabinieri e come primo incarico ebbe la reggenza della tenenza della caserma di San Benedetto del Tronto ed in seguito all’armistizio, collaborò con le forze di resistenza.
Si laureò nel 1943 in giurisprudenza a Bari e nel ’44 prese una seconda laurea in scienze politiche, ottenendo l’incarico di una tenenza nella medesima città, di cui il padre era già il comandante della legione locale. Sempre lì, conoscerà Dora Fabbo, la ragazza che poi diventò sua moglie.
Alla fine della guerra ottiene dalla resistenza, il Distintivo di Volontario della Guerra di Liberazione, guadagnando così il passaggio in servizio permanente effettivo per merito di guerra.
Nell’immediato dopoguerra, è stato inviato a Casoria (NA) e lì nacque sua figlia Rita. Distintosi nella lotta al banditismo, fu inviato in Sicilia al comando delle forze repressione contro la banda di Salvatore Giuliano.
Magari la visione mitologica di un Robin Hood nostrano e l’opinione spaccata tra Criminale e patriota siciliano, l’approfondiremo un altro giorno.
Indagò anche sulla scomparsa di Placido Rizzotto e sul boss mafioso emergente Luciano Liggio. Si distinse, ottenendo una medaglia d’argento al valor militare
Nel novembre 1949 nasce poi suo figlio Nando e nel settembre del 1952, la sua terza figlia Simona.
Negli anni anni ’50 poi lascerà la Sicilia per farvi ritorno nel 1966 col grado di colonnello Comandante della legione Sicilia. Nel 1968 si distinse nei soccorsi alla popolazione della valle del Belice, rimasta sfollata in seguito al terribile terremoto avvenuto in quel territorio.
Il suo incarico principale era comunque quello di indagare e contrastare la terribile guerra di mafia che si stava verificando in quel momento tra corleonesi e palermitani. Indagini, svolte con una grande collaborazione tra carabinieri e polizia, dove per l’occasione conobbe Boris Giuliano che come tutti sappiamo, fu anch’egli eliminato dalla mafia.
Indagò sull’assassinio del procuratore della repubblica di Palermo Pietro Scaglione e fu decisivo il suo ruolo nell’arresto del “mostro di Marsala” Michele Vinci, che uccise tre bambine. Azioni coordinate dall’allora procuratore di Marsala Cesare Terranova. Queste indagini, raggiunsero un suo culmine con il dossier dei 114, che comportò moltissimi arresti ed il confino per coloro che era impossibile arrestare.
Nel 1974, Dalla Chiesa ottenne che proprio il confino non venisse svolto presso grandi città del nord Italia, ma presso le isole di Linosa, Asinara e Lampedusa.
Nel 1973 viene nominato generale di brigata e diventa, l’anno successivo, comandante della 1° Brigata Carabinieri. E’ la volta della lotta alle Brigate Rosse dove ottiene i poteri speciali che gli consentono piena capacità d’azione per estirpare l’organizzazione terroristica, creando il Nucleo Speciale Antiterrorismo riuscendo di fatto a piegare le BR.
Tra le sue azioni più meritorie, ricordiamo Pinerolo, quando fece arrestare Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco e fondatori delle Brigate Rosse, grazie anche alla determinante collaborazione di Silvano Girotto, detto “frate mitra”.
Da ricordare la liberazione dell’industriale Vallarino Gancia che, nonostante la richiesta di un riscatto da parte delle BR, venne liberato incolume a seguito di un feroce scontro a fuoco tra brigatisti e carabinieri.
In quell’occasione morirono l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e il capo del nucleo brigatista Margherita Cagol, e furono gravemente feriti altri due carabinieri, tra cui il tenente Umberto Rocca che perse un braccio e un occhio. Il nucleo creato da dalla Chiesa, fu sciolto nel 1976.
L’azione definitiva contro le Brigate Rosse avvenne nel 1981, quando al comando della Divisione Pastrengo, fece irruzione in via Fracchia e con l’arresto di Rocco Micaletto e di Patrizio Peci, e le loro successive rivelazioni, pose fine alle BR.
Venne nominato vice comandante generale dell’Arma il 16 dicembre del 1981, nonchè la massima carica per un ufficiale dei Carabinieri.
Nominato il 6 aprile 1982 dal Consiglio dei ministri Prefetto di Palermo, con l’obiettivo di ottenere contro Cosa Nostra gli stessi risultati ottenuti contro le Brigate Rosse, Carlo Alberto Dalla Chiesa accettò solo a condizione di avere concessi gli stessi poteri ricevuti per combattere le BR.
In realtà il Generale lamentò più volte la mancanza del mantenimento della parola data dal governo ed interessanti furono le dichiarazioni da lui fatte, sulla mafia: «La mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana».
Lamentando quella mancanza di poteri speciali promessi, dichiarò durante un’intervista a Giorgio Bocca:
«Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?».
Dichiarazione che creò non poche lamentele proprio dai Cavalieri del Lavoro catanesi Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro, che erano proprio quegli edili a cui faceva riferimento Dalla Chiesa.
A fine agosto, al comando dei Carabinieri di Palermo, fu fatta una chiamata anonima, devo fu detto: “l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa”.
Alle 21:15 del 3 settembre 1982, una BMW affiancò l’auto del Generale in via Isidoro Carini e dei colpi di mitra, di AK-47 per la precisione, eliminarono lui e la seconda moglie Emanuela Setti Carraro. Contemporaneamente un’altra auto affiancava quella dell’agente di scorta Domenico Russo che gravemente ferito, morirà dodici giorni dopo in ospedale.
Ai funerali, la figlia Rita rimosse la corona di fiori inviata dalla Regione Siciliana, volendo sul feretro del padre il tricolore, la sciabola e il berretto della sua divisa da Generale con le relative insegne.
Il Cardinale Pappalardo, nella sua omelia, citò Tito Livio: “Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo”.
Curiosità sulla morte.
Al funerale del generale, la figlia Rita con la sua pretesa della rimozione della corona di fiori inviata dalla regione ed il Cardinale Pappalardo di Palermo, fece capire chiaramente che esisteva un solo mandate e quello si chiamava: Governo nazionale.
Sono molti gli aspetti dibattuti, ma il più interessante è senza dubbio la probabile connessione che si aveva con il rapimento di Aldo Moro da parte delle BR e Giulio Andreotti. Considerate soprattutto le carte che sarebbero state rinvenute dopo gli arresti di Lauro Azzolini e Nadia Mantovani in via Montenevoso a Milano.
Quel memoriale è stato consegnato da Dalla Chiesa a Giulio Andreotti. Secondo la madre di Emanuela Setti Carraro, la figlia le avrebbe confidato che il Generale non consegnò ad Andreotti tutte le carte rinvenute, e che nelle stesse fossero indicati segreti estremamente gravi.
Oltretutto, la sera del suo omicidio, una persona fu mandata a casa del generale per prendere dei lenzuoli per coprire i cadaveri e questa persona aprì la cassaforte del Generale, dove era conservato il dossier del caso Moro.
Il giornalista Mino Pecorelli, amico di Dalla Chiesa e fondatore di OP (Osservatore Politico), scrisse nella sua rivista che in realtà il generale aveva scoperto l’ubicazione in cui veniva tenuto Aldo Moro e lo aveva comunicato all’allora ministro dell’interno Cossiga che diede ordine di non intervenire perché «costretto a non intervenire». Dunque Dalla Chiesa era un pericoloso e scomodo testimone.
Inoltre il Boss Tommaso Buscetta, dichiarò che Pecorelli e Dalla Chiesa erano a conoscenza dei segreti sul sequestro di Moro e che infastidivano Andreotti. Per la precisione, ecco cosa aveva dichiarato: «Dalla Chiesa lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di lui».
di Vittorio Emanuele Miranda – EmmeReports