Palermo tributa con un’antologica il proprio omaggio ad un figlio irriverente, Antonio Calascibetta legato alla città e alla propria terra da un rapporto doloroso, fatto di orgoglio, compassione, speranza di riscatto e rassegnazione innanzi al degrado, male inestirpabile della società. Antonio Calascibetta, architetto, lascia a 33 anni la propria terra avventurandosi a Milano per tornare rinnovato anche nel nome: Momò, in ricordo di uno zio esteta e amante delle arti, ma la sua Sicilia – paradigma dell’umanità e spunto di ogni riflessione – mai gli uscirà dal cuore. “La Sicilia – racconta l’artista – me la sono portata a Milano a partire dal 1982, è lì che mi è apparsa in tutte le sue sfaccettature; nel bene e nel male, è lì che i temi della mia pittura hanno attinto. Io sono un artista satirico dove i contenuti prevalgono, e la forma della rappresentazione è una conseguenza. La mia “farsa” è quieta, per niente rabbiosa, e contiene ancora, a mio avviso, un po’ di pietas e di speranza. Nonostante tutto credo ancora nell’uomo, nella sua intima bontà; non voglio rinunciare a questa fede forse irrazionale”.
Sono settantacinque le opere in mostra a Palazzo Belmonte Riso, sede del Museo Regionale d’Arte Moderna e Contemporanea ma su tutte è una che primeggia: “Il giardino delle delizie” un magnifico trittico pensato e dipinto durante i mesi del lockdown, centrato sull’architettura barocca dei Quattro Canti, un’opera che scopriamo attraverso le parole del curatore, Andrea Guastella. “Alla fine dei giochi, niente rimane di là dalla cornice. Torna la casta “imbestiata nella più lata avarizia e nella più lata bestialità” di cui parlava Sciascia sin dagli esordi dell’artista. E tornano gli schemi narrativi (uno per tutti l’ellisse: dalla giostra che schiaccia lo spazio di Comiso Park, alla Fontana della Vergogna al centro di una piazza, alla piazza stessa che, nel Giardino, si deforma e si allarga, come vista da un grandangolo, a inglobare l’universo). Persino la scansione in parti viene piegata a un senso nuovo: nei trittici medioevali, delineava momenti successivi; nel Giardino, al contrario, garantisce l’unità del molteplice, l’immobilità del divenire. Guardiamo, ad esempio, al pannello di sinistra: la presenza di un’intelaiatura di vetro e metallo nel luogo del principio non significa forse che l’inizio c’è già stato, che la storia non esiste, che l’Eden non è un regno scomparso, né un futuro a venire, ma la semplice speranza di una casa? La direzione non è obbligata … nessuna legge ci costringe a partire dal paradiso terrestre per finire con l’inferno. Come in un quiz a risposta multipla, siamo liberi di scegliere la sorte che ci spetta. Momò, dovrebbe essere ormai chiaro, non si limita a svolgere una tesi … L’artista non vorrà mica suggerirci che la Palermo di oggi, con il suo scialo di feste, eleganze impossibili e modernizzazioni mancate, non è poi così diversa da quella di allora? A noi, e a nessun altro, si rivolge questa storia. A noi che abbiamo barattato la libertà con l’avvenenza. A noi che, come la crosta leggerissima di cui siamo ricoperti, che è il nostro stesso corpo, ci infrangeremo, scricchiolando, al primo tocco del destino”.
Il Curatore Andrea Guastella ne ha esplorato i significati più profondi, evidenziando quanta riflessione vi sia dietro la scelta estetica, quanto ogni personaggio rappresenti un modo di essere e passi rapidamente dalla cronaca al simbolo, portando l’intera opera in uno spazio atemporale, elevandola dalla narrazione al meditare sulla condizione umana. In catalogo vi è anche una considerazione della mecenate e collezionista Chiara Modìca Donà dalle Rose, Presidente dell’omonima Fondazione: “Momò Calascibetta, un artista che si conferma visionario e sempre attualissimo con il suo ‘neoespressionismo’ storico confermando la sua incredibile e spiccata capacità di rappresentare dal di dentro l’essenza dell’uomo e della società, oggetto della sua principale indagine. Momò ci ha traghettato tra due secoli con la sua arte … ricordandoci che ogni mondo è paese e che gli episodi della vita di una collettività rivelano una sua costante ciclicità: conferma e riconferma, tra tesi ed antitesi a tratti freudiana”.
Nelle sue parole si legge l’apprezzamento sia per le dotte e raffinate citazioni del linguaggio artistico, che per la lucida e intransigente analisi filosofica, che l’artista con grande coerenza ha sempre tenuto alla base della propria ricerca.
Momò Calascibetta preferisce raccontarsi attraverso le opere; quando si descrive – come nell’intervista che gli ha dedicato il Curatore – parla di sé con spiazzante semplicità, concentrandosi sulle proprie emozioni: “Dipingo quello che mi viene più spontaneo, cercando di coniugare le esperienze del mio vissuto con la mia naturale vena ironica. E tuttavia, alla vista di una mia opera finita, a ridere di me stesso non riesco proprio: l’ironia, o il sarcasmo, che mi ha permesso di crearla, non è infatti un gioco per suscitare il riso, ma la pura conseguenza di un dolore conosciuto vivendo, di esperienze reali e di cattiverie umane che hanno lasciato il segno. Cerco di interpretare, di denunciare, ma non mi sono mai posto l’obiettivo di interpretare il presente e progettare il futuro”.
Ma Antonio Calascibetta è architetto e come tale ragiona per assonometrie e proiezioni, per scorci e prospettive, non certo per impressioni visive. Questo rende il suo dipingere dettagliato e quasi spigoloso, ricordando Paolo Uccello o Cosmè Tura. Ha una sensibilità profonda filtrata da una professionalità tecnica, dipinge persone ma è come se guardasse edifici o meglio è come se, guardando una periferia tracotante e disorganizzata vedesse attraverso le architetture il riflesso di chi, vivendolo e pensandolo, ha reso quel mondo concreto e fisico. Momò non è un progettista dell’utopia, non cerca la forma in cui tutti dovrebbero rispecchiarsi; non pensa nemmeno all’urbanistica perché sa che resterebbe nel novero dei sogni traditi. Ritengo abbia un punto di vista rinascimentale, umanistico: per lui l’uomo è la misura non tanto del cosmo, quanto della società. E di quale società diventa metro? di quella purtroppo, che ci circonda e di cui non possiamo lamentarci perché è il vestito che volontariamente ci siamo cuciti addosso.
La sua una contestazione implicita e rassegnata alla Città ideale, al grande progetto sociale capace di forgiare una nuova realtà. Sono personaggi che mettono in scena, nel teatro della vita, la nostra civiltà; interpretano l’apparenza, il disordine dei quartieri, i restauri ottusi, le insegne dissonanti, i percorsi intasati e sconnessi, la voglia di imporre il proprio volume senza armonia badando esclusivamente al proprio becero interesse. Talvolta riconosciamo in questi volti nomi conosciuti ma non è ironia o satira sulla loro pratica quotidiana, sono semplicemente esempi, che assurgono all’universalità, al tipo. Evidenziano come l’uomo si degradi protetto e rassicurato dal proprio contesto. I corpi immaginati da Momò non sono brutti, ma abbruttiti. I gesti di per sé non sono volgari, ma meschino e basso è il pensiero che genera quel gesto. Personalmente non definirei Calascibetta un artista della satira, ma un pittore realista di una società degenerata. È satirico nell’accezione più classica, dei satiri, dionisiaco che racchiude le pulsioni, gli istinti della vita nel senso più genuino, sanguinario e naturale ed è perciò in grado di coglierne per contrasto la deriva buffonesca e triviale. Trovo che i suoi personaggi misurino la distanza con l’uomo di Le Corbusier: il Modulor. Da parte dell’architetto svizzero una realtà concepita in armonia con la naturalezza del corpo, nel mondo di Momò Calascibetta un profluvio di esseri gonfi, impettiti, sbracati, dai gesti artificiosi. Nulla di lombrosiano, il degrado del corpo è una scelta volontaria, è la radice del degrado sociale: quello che l’artista palermitano, rassegnato guarda, sperando intimamente in un domani migliore.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports
Ricerche ed editing a cura di Monica Cerrito
“Il giardino delle delizie” di Momò Calascibetta a cura di Andrea Guastella
Palermo, Palazzo Belmonte Riso, Via Vittorio Emanuele, 365 – fino al 25 settembre 2021 (da martedì a sabato, dalle 9 alle 18,30 – domenica dalle 9 alle 13)