Alla Reggia Borbonica di Ficuzza la mostra simbolo contro il degrado ambientale: “Inquinamenti” a cura di Francesco Scorsone. Oggi presentiamo “Pesca oceanica” dell’artista siciliano Gaetano Barbarotto: possiamo leggerla già come risposta al grido d’allarme lanciato da un muralista a Palermo, in Vicolo della rosa all’Alloro. Il mare purtroppo non è in grado di reggere l’onda di rifiuti che senza ritegno la nostra civiltà produce e abbandona. Dal tentativo disperato del polpo di proteggere la propria casa a un vero e proprio deserto azzurro, dove una prossima futura umanità andrà cercando inutilmente le proprie fonti alimentari.
Gaetano Barbarotto raccoglie gli elementi principali del dipinto nell’equilibrio apparentemente statico di un cerchio trascinando l’osservatore in un vortice: ha cancellato le coordinate spaziali e ogni punto fermo, proiettato la visione verso il futuro, il tempo dell’incertezza. Per questa ragione l’artista ha scelto lo schema usato in ogni cupola barocca, pregno di una forza turbinosa e avvolgente che presenta gli elementi della storia mantenendoli tutti contemporaneamente presenti sulle linee di forza della spirale. È una composizione che parla non solo alle emozioni ma obbliga ad una sintesi. L’acqua del mare ha ormai il colore dell’inchiostro, è trasparente e tenebrosa, assorbe la luce senza restituire nulla alla vita; sostiene un corpo etereo e fluttuante, lo ostende allo sguardo e ci parla della nostra quotidianità: ha la traccia e la cronaca di altri mondi, fatti di negozi, supermercati, strade trafficate, uomini e donne impegnati a portare anzi a trascinare il peso del proprio sostentamento. Poi la liberazione apparente, il disinteresse, l’essere ciechi al destino delle cose; dal mondo emerso il sacchetto vola, si immerge, annega ma non muore. Sicuramente uccide e lo fa senza logica, per puro caso, distrattamente e senza volontà, ma continua la corsa fatale nel mare diventato buio come la pece.
Di contro l’uomo in questa fluida pattumiera cerca ancora di catturare una guizzante bellezza, cibo e guadagno: trascina i propri uncini inflessibili, fatti di ferro ormai rugginoso, senza nemmeno agganciare un’esca, in modo ottuso e ripete ossessivo questa pesca oceanica ormai senza speranza. Plastica e metalli sono ambedue catastrofi ambientali mascherate dall’illusione di essere governabili: l’utilizzo di sacchetti biodegradabili e compostabili che attua le indicazioni della direttiva comunitaria 2015/720 è solo un primo e timido passo verso la riduzione dell’uso della plastica negli imballaggi: ma a quanto può servire nell’immensità di un mondo globalizzato che usa i mari come sversatoio? Negli ultimi anni si è puntato sulle bioplastiche, che sembrano a minore impatto ambientale, perché create con polimeri derivati dal mais e altri vegetali. Se da un lato risolve il problema della degradabilità, dall’altro viene rubata terra alla biodiversità e all’alimentazione, il land grabbing, sfruttando l’agricoltura per scopi puramente industriali.
Nel grande cerchio della composizione, il cui centro sembra un’isola, un monte velato dalla nebbia o la deriva di un grande iceberg mentre è solo immondizia galleggiante, si manifesta l’altro elemento inquinante: il metallo. In apparenza neutro, riciclabile ed ecocompatibile rappresenta un serio problema quando è liberato nell’ecosistema, soprattutto in quello marino, perché non conosce confini e racchiude infiniti organismi filtranti. L’inquinamento da metallo è pernicioso perché non si degrada perdendo di tossicità: la contaminazione riguarda infatti l’elemento chimico e non un particolare composto, una molecola, come nel caso dei pesticidi. I metalli diventano inerti solo quando diventano insolubili e cessano quindi di essere disponibili nella catena alimentare. Prima di arrivarvi, però, gli effetti sulla vita marina saranno devastanti: smuovere i metalli dalle loro sedi naturali libera un forte potenziale inquinante. Usare i metalli con grande facilità, come l’alluminio, nell’illusione di un processo di riciclo pulito e senza effetti, richiede invece enormi costi ambientali: dalla difficoltà di estrazione alla dispersione di un elemento che ha quasi sicuramente effetti neurotossici. L’essere umano, di fronte ad un mare sempre più povero di vita, si presenta bellicoso con nuove armi e arpioni, graffiando con accanimento il corpo immenso e fragile degli oceani; per questo la lenza diventa un fil di ferro, l’amo un uncino mortale: l’unica risposta che dà al mare ferito è solo altro dolore, inutile e dissennato.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports
Ricerche ed editing a cura di Monica Cerrito
Fotografia ©Monica Cerrito