Due cose mi hanno colpito dell’Afghanistan, il sorriso delle bambine dell’orfanotrofio di Herat e il cielo stellato di notte. Ieri, entrambe, hanno smesso di brillare. I Talebani, gli “insurgents”, come li hanno chiamati per venti anni, chi li ha combattuti, hanno ripreso il potere del Paese.
Tre operazioni militari, prima Enduring Freedom (Libertà Duratura..), poi ISAF e poi RS, missioni a cui hanno partecipato attivamente anche i nostri soldati, mettendo sul campo, “boots on the ground”, il fior fiore dei nostri reparti, come la Task Force-45, composta da operatori delle Forze Speciali delle quattro Forze Armate, impiegati contro la resistenza talebana, svolgendo missioni di guerra non convenzionale, ricognizioni speciali, operazioni anti-terrorismo, liberazione ostaggi e civili, servizio scorta personalità diplomatiche, lotta ai traffici illeciti di armi indirizzate agli insurgents, prevenzione di attentati diretti contro i militari italiani e della coalizione.
Tutto questo, comprese le migliaia di vite spezzate tra i militari del contingente internazionale, cancellato in poche settimane, da chi ha deciso che non era più opportuno, per gli interessi nazionali, restare in Afghanistan. Meglio rimettere al potere i barbuti studenti del Corano e la loro “Shari’a”, che continuare a vedere sparire miliardi di dollari tra la sabbia afghana. E così i Talebani hanno conquistato anche Kabul, facendo ripiombare nel terrore uomini, donne e bambini, iniziando veri e propri rastrellamenti, casa per casa, a caccia di coloro che hanno collaborato con gli stranieri, di giornaliste e di donne dai 12 ai 45 anni, da dare come “bottino di guerra” ai comandanti dal turbante nero. Tutto sotto gli occhi del mondo intero, come dei tremila marines, inviati dal Pentagono, per proteggere la ritirata del personale americano ancora presente a Kabul, lasciando indisturbate e le rappresaglie dei Talebani.
“Siamo fortemente preoccupati per l’incolumità delle nostre attiviste per i diritti delle donne di Kabul” ci ha detto per telefono, Luca Lo Presti, presidente di Pangea, onlus italiana, molto attiva in Afghanistan, come in India e in Italia, contro le discriminazioni, i pregiudizi e le violenze verso le donne. “É un momento di grande paura, di grande minaccia per chiunque si sia adoperato per le donne afghane in tutti questi anni”.
“In Afghanistan abbiamo realizzato progetti di microcredito, per l’emancipazione economica delle donne, con cifre che si aggiravano dai 350 ai 500 euro, in base al tipo di attività che volevano aprire” ha spiegato il presidente di Pangea. “Abbiamo aperto anche asili e una scuola con 650 bambine sorde, iniziato corsi professionali per i diritti umani, aperto imprese per 65000 donne, abbiamo creato progetti di autonomia, indipendenza e consapevolezza”.
L’Afghanistan è un luogo bellissimo quanto difficile per chi ci vive, da sempre in guerra e dove si mescolano centinaia di etnie, quasi mai in accordo tra loro. Lo aveva capito Gino Strada nei primi anni del 2000, lo avevano capito gli ufficiali italiani, gli unici in tutta la coalizione militare, a sapere dialogare con i capi delle varie fazioni, senza offendere e invadere la loro cultura. In questo scenario, dove le bambine e le donne sono inevitabilmente vittime dell’ignoranza, del maschilismo e dell’integralismo islamico, si sono inserite le volontarie e le attiviste di Pangea che, dopo un percorso di reciproca conoscenza durato venti anni, sono riuscite a integrarsi con la realtà locale, cercando di superare le reciproche diffidenze, portando l’onlus diventare un programma di sviluppo.
“Tra i tanti progetti, abbiamo creato una squadra di calcio femminile, formata da bambine sorde” ci ha raccontato Luca Lo Presti. “Riuscire a farlo con chi rischiava sicuramente di finire ai margini della società, essendo donne e portatrici di handicap, è stato come fare una rivoluzione senza sparare nemmeno un colpo”. “La cosa meravigliosa era avere anche un piano di scolarizzazione di queste bambine e ragazze che quest’anno, per la prima volta nella storia dell’Afghanistan, sarebbero andate all’università”.
Lo Presti ha spiegato a EmmeReports che la onlus è in stretto contatto con il Ministero degli Esteri italiano, per fornire assistenza alle attiviste afghane, per metterle in sicurezza, onde evitare che finiscano nelle mani dei Talebani e vengano ammazzate. Quello che si augura il presidente della onlus milanese è che, quanto prima, possano partire dei corridoi umanitari, per accogliere chi ne ha bisogno, in Italia.
“Vogliamo comunque continuare ad aiutarle lì, dopo venti anni a Kabul, non possiamo abbandonarle come hanno fatto tutti gli altri” ha tenuto a precisare Lo Presti, che ha sfogato la sua rabbia verso una situazione che ritiene assurda.
“Bisognava avere la volontà vera di costruire, di aiutare realmente la popolazione civile che, invece, non interessava a nessuno, altrimenti non ce ne saremmo andati via in questo modo” ha dichiarato il presidente di Pangea. “Dietro c’era solo una visione di interesse geopolitico, strategico ed economico. E quando evidentemente questi interessi sono andati scemando, ce siamo andati. Abbiamo detto che eravamo andati in Afghanistan, per aiutare le donne e ripristinare i diritti umani, invece non ci siamo preoccupati un secondo di quello che sarebbe accaduto, nel momento in cui avremmo lasciato il Paese, consapevoli, perché le trattative di Doha sono state portate avanti dagli Stati Uniti con i Talebani, degli scorpioni, che non avrebbero mai mantenuto delle promesse”.
Di Francesco Militello Mirto – EmmeReports