A Palermo, in estate, la parola più diffusa è “cavuru” (caldo) e tra le molteplici espressioni autoctone, quella che rende maggiormente l’idea della sofferenza è: “Beddamatri chi cavuru, ummafirucchiù” (mamma mia che caldo, non ne posso più). Per sopravvivere, nell’attesa di uno sciamano specializzato in danza della pioggia, i palermitani si aiutano come meglio possono: acqua e birra atturrunate (ghiacciate), bibite varie e gelato… squagliato su mani e braccia. Ma c’è una risorsa fresca e soda da gustare dal primo all’ultimo cucchiaio, senza incorrere in indecorosi “scivolamenti” e rischio di congestione ovvero u gelo i muluni, altrimenti detto nelle zone più popolari u gelu i mulù. Il che non significa che il gelo sia proprietà di un certo Mulù. Ma, scherzi a parte, il gelo di melone sollievo dei palati accaldati, è buonissimo da mangiare e bello da vedere, poiché ravviva con il suo rosso brillante le vetrine delle pasticcerie palermitane. Ovviamente, la base è il succo dell’anguria o del melone rosso, che dir si voglia, ma per noi di questa terra assolata diventa mellone! Frutto dolcissimo, specialmente quando la polpa assume un aspetto quasi granuloso, il melone contiene circa il 95% di acqua, è ricco di vitamine, potassio ed è ipocalorico. Ideale alimento, quindi, da consumare fresco nelle torride giornate estive.
Il melone, in alcune zone d’Italia chiamato anguria, in altre cocomero e in altre ancora melone d’acqua, è originario dell’Africa tropicale e, in base ad alcuni ritrovamenti, sembra fosse già conosciuto nell’antico Egitto. Ne è stata trovata traccia, infatti, anche tra i cibi sepolti nelle tombe dei Faraoni. Gli egizi, inoltre, credevano che il succoso frutto avesse avuto origine dal seme del Dio Seth. Il melone viene citato altresì in un passo della Bibbia, quando gli Ebrei assetati e stremati nel deserto del Sinai, rimpiangevano la bontà e la freschezza di quel frutto.
Anche in alcuni scritti di Plinio il vecchio si trovano dei riferimenti in merito a una pianta chiamata melopepo, i cui frutti sferici e la descrizione della pianta stessa sono elementi che rimandano alla famiglia delle cucurbitacee, quindi alla specie del tondo frutto che conosciamo. Altro termine riportato nel testo è poponi così come, ancora oggi, vengono chiamati i meloni in Toscana, mentre la parola anguria (dal greco angóuria, plurale di angóurion ossia cetriolo), si diffuse in Italia in seguito alla dominazione bizantina. Ma torniamo al siculo mellone.
Reperire uno o più melloni, sia per chi il gelo di melone lo prepara in casa che per il fabbisogno delle pasticcerie, è facilissimo poiché con l’avanzare dell’estate la produzione del frutto dalla polpa color rubino si intensifica e, contemporaneamente, lungo le strade e nei vari vicoli della città si materializza una particolare figura professionale: u mulunaru, da non confondere con u lupunaru che non vende lupi, ma come vuole la tradizione popolare è affetto da licantropia.
U mulunaru si posiziona con il proprio camioncino o la lapa a tre ruote, esponendo piramidi di muluna che pur essendo tondi (o quasi) non scivolano. Su enormi cartelli, scritti a mano, troveremo la scritta muluni ruci (meloni dolci) e a seguire il prezzo al chilo che da 0,90 centesimi diventa 0,99 una volta arrivati alla meta. L’astuto mulunaru attira il cliente con l’illusorio prezzo e attende, come il ragno, la mosca. Non appena il malcapitato ferma la macchina, sperando di potere scegliere e trattare sul prezzo, u mulunaru è già pronto con il suo bel mellone da trenta chili e con mossa da provetto illusionista, lo fa apparire all’interno del portabagagli della vettura, senza che il proprietario se ne accorga. La dolcezza del mellone è direttamente proporzionale alla sua maturazione che il venditore garantisce dopo avere tamburellato sulla verde corteccia del frutto, una consuetudine che si fa risalire al Medioevo. Ma torniamo al gelo di melone la cui origine è controversa. Secondo alcune fonti la ricetta sarebbe arrivata insieme agli Arbëreshë, esuli provenienti dall’Albania che intorno al XV secolo si stabilirono in Sicilia, a Piana degli Albanesi, grazioso comune distante pochi chilometri dal capoluogo siciliano. Secondo altre, invece, il gelo di melone sarebbe nato nel periodo della dominazione araba dell’Isola, poiché gli ingredienti che lo compongono ossia la cannella, il pistacchio e il gelsomino rimandano, senza ombra di dubbio, al magico oriente.
Albanese o arabo che sia poco importa, poiché la bontà del gelo di melone valica spazio, tempo e dibattute origini.
Anche per questa specialità siciliana, la mia mente torna indietro nel tempo e rivede il laboratorio di pasticceria di mio padre dove in estate, con il forno costantemente acceso, si raggiungevano temperature da fusione nucleare e… cerebrale. In verità non era soltanto il forno a emanare calore, ma anche l’enorme fiamma che bruciava sotto un pentolone d’acciaio in cui veniva messo ad addensare il succo del melone, ricavato setacciando rigorosamente a mano la polpa rossa del frutto. Dopo tanti anni, riportando alla memoria il ricordo, sento ancora quel profumo che si diffondeva in tutto il laboratorio. La fragranza del gelo di melone in fase di preparazione non è facile da descrivere poiché il melone, facendo parte della famiglia delle cucurbitacee, ricorda vagamente sia la zucca che il cetriolo. In effetti, quando il meloneè insipido, il palermitano usa dire “stu mulune pari cucuzza” (questo melone sa di zucca”). Ma solitamente per il gelo di melone vengono utilizzati solo frutti dolci e maturi, per cui l’aria si riempie di dolcezza e profumo di gelsomino, immancabile elemento nella preparazione di questa golosa specialità al cucchiaio. Ricordo che mio padre raccoglieva i profumatissimi fiori bianchi dalle piante che avevamo nel giardino della nostra villetta e, dopo averli lavati accuratamente, li lasciava macerare in acqua minerale per 24 ore circa. Il giorno dopo la filtrava e ne aggiungeva qualche goccia per dare quel tocco unico al gelo di melone.
Secondo una delle tante leggende, il primo a coltivare il gelsomino fu Cosimo I de Medici che ne proibì la coltivazione al di fuori dei giardini granducali. Ma un giardiniere disubbidiente rubò una pianta, la donò alla fidanzata che la curò con tanto amore e la pianta, forse grata per le amorevoli cure, la ricambiò con fiori profumatissimi e stupendi. In seguito i due innamorati si sposarono, coronando il loro sogno. In Toscana le spose, quale auspicio di prosperità e felicità, sono solite aggiungere un rametto di gelsomino nel bouquet di nozze, il fiore che portò fortuna a quella giovane sposa. Per quanto mi riguarda il profumo intenso e inebriante del gelsomino mi ricorda le notti d’estate, quando sul terrazzo della nostra villetta tutta la famiglia si riuniva per scrutare il cielo. Sfuggire al caldo era impossibile, ma noi avevamo un fresco e dolcissimo alleato che rinfrescava palato e mente: il gelo di melone. Ineguagliabile la sua cedevole e gelatinosa morbidezza, interrotta di tanto in tanto dalle gocce di cioccolato e dalla granella di pistacchio, decorazioni immancabili sulla lucida superficie di questo superbo ed estivo dolce al cucchiaio. E mentre il nostro olfatto veniva sedotto dal profumo del candido fiore, al tempo stesso ne assaporavamo l’essenza contenuta in ogni piccola porzione del rosso gelo di melone. Tra un boccone e l’altro, intanto, sotto quel cielo solcato da stelle cadenti, ognuno di noi metteva in ordine i propri desideri nell’attesa di affidarli alla stella giusta.
RICETTA DI NONNO ENZO PASTICCERE per 6 vaschette ca
Ingredienti:
1 lt succo di melone rosso
300 gr di zucchero
90 gr di amido di mais
Un pizzico di cannella
50 gr di gocce di cioccolato
Granella di pistacchio
Essenza di gelsomino
Preparazione:
Dopo avere passato al setaccio la polpa del melone rosso e ricavato il succo, aggiungere gli altri ingredienti e fare addensare a fuoco medio. Infine decorare con le gocce di cioccolato e la granella di pistacchio.
Buon Ferragosto!
di Monica Militello Mirto – EmmeReports