“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui essa appartiene. […] Per lui la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti specialmente le giovani generazioni […], le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone […] quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: La gente fa il tifo per noi”.
Questo è stato l’ultimo discorso di Paolo Borsellino tenuto il 25 giugno del 1992 nella biblioteca di Casa Professa a Palermo. Un discorso interrotto da due lunghi applausi.
Palermo è una città che più volte si è ritrovata ad essere al centro delle cronache, un faro nella storia del mondo, fino ad essere capitale di un impero e di due regni nei secoli passati, ma anche portatrice (come tutte le città del mondo) dei suoi problemi. Uno di questi è proprio la Mafia, un cancro diffuso in tutto il mondo e che ha oppresso Palermo e la Sicilia, in particolare nella seconda metà del ‘900.
Oggi racconteremo, estremamente in breve, la storia di uno degli eroi che ha dato la vita per opporsi, riuscendo ad infliggerle tanti danni, a tale Piovra.
Nato nel quartiere Kalsa di Palermo il 19 gennaio del 1940 da Diego e da Maria Pia Lepanto, Paolo Emanuele Borsellino, conoscerà – giocando a calcio – quel Giovanni Falcone di cui diventerà amico per la vita, fino a condividerne la lotta alla mafia ed un tragico destino.
Diplomato al liceo classico Giovanni Meli, l’11 settembre 1958 Paolo si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Palermo con numero di matricola 2301.
Proveniente da una famiglia con simpatie politiche di destra nel 1959 si iscrisse al Fronte Universitario d’Azione Nazionale, organizzazione degli universitari missini, di cui divenne membro dell’esecutivo provinciale e di cui venne eletto come rappresentante studentesco nella lista del FUAN “Fanalino” di Palermo.
Il 27 giugno 1962, all’età di ventidue anni, Paolo Borsellino si laureò con 110 e lode con una tesi su “Il fine dell’azione delittuosa”.
Avendo partecipato ad un concorso per entrare in magistratura nel 1963, diventa il più giovane magistrato d’Italia, classificatosi venticinquesimo sui 171 posti messi a bando. Il 23 dicembre 1968 sposò Agnese Piraino Leto dalla quale ebbe tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta.
Nel 1969 fu pretore a Monreale, dove lavorò insieme a Emanuele Basile, capitano dell’Arma dei Carabinieri.
Nel 1975 Borsellino venne trasferito presso l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo e nel 1980 continuò l’indagine sui rapporti tra i mafiosi di Altofonte e Corso dei Mille cominciata dal commissario Boris Giuliano. Nel frattempo, conobbe anche il Giudice Rocco Chinnici stabilendo un rapporto simile a quello tra padre e figlio. Un rapporto che più avanti la sorella di Paolo, Rita Borsellino e la figlia di Chinnici, definirono “d’adozione”.
In seguito all’omicidio del capitano Basile, il 4 maggio 1980, alla famiglia di Paolo fu affidata una scorta e le indagini per i suoi assassini si conclusero con il rinvio a giudizio dei mafiosi Vincenzo Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia che furono poi assolti per insufficienza di prove, nonostante in realtà vi fossero delle prove schiaccianti contro di loro. I tre si diedero alla latitanza ed in seguito, nel 1992, arrivò la condanna per l’unico rimasto in vita.
In seguito all’omicidio Basile, nei primi anni ’80 Rocco Chinnici creò il Pool Antimafia, con il chiaro intento di creare un nucleo di magistrati al fine di creare una lotta antimafia sempre più serrata. Il 29 luglio 1983 Chinnici venne assassinato ed al suo posto, da Firenze, giunse Antonino Caponnetto (e mi permetto di aggiungere che nella mia esperienza universitaria fiorentina, alloggiavo nel dormitorio a lui dedicato).
Le indagini del Pool si basarono soprattutto su accertamenti bancari e patrimoniali, vecchi rapporti di Polizia e Carabinieri ma anche su nuovi procedimenti penali, che consentirono di raccogliere un abbondante materiale probatorio. Nello stesso periodo Giovanni Falcone iniziò a raccogliere le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, la cui attendibilità venne confermata dalle indagini dello stesso Pool. Il 29 settembre 1984 le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura mentre il mese successivo quelle di Contorno produssero altri 127 mandati di cattura e arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna.
Falcone e Borsellino furono trasferiti nella foresteria del carcere dell’Asinara in Sardegna nell’estate dell’85 per ragioni di sicurezza e sempre in seguito agli enormi successi ottenuti tramite le confessioni di Buscetta e Contorno, si arrivò al Maxi-processo tenuto nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo: era il 10 febbraio 1986.
Il processo si concluse il 16 dicembre 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli.
In seguito al ritiro, per motivi di salute, di Caponnetto a Firenze, ci si aspettava che venisse nominato Giovanni Falcone a capo del Pool. Fu nominato invece Antonino Meli il 19 gennaio 1988, facendo sorgere le paure per il discioglimento del Pool: cosa che alla fine successe inevitabilmente.
Il 20 luglio 1988 Paolo Borsellino, riferendosi al CSM, dichiarò in alcune interviste: “Si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all’Ufficio”, “hanno disfatto il pool antimafia”, “hanno tolto a Falcone le grandi inchieste”, “la squadra mobile non esiste più”, “stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa”.
Nel settembre del 1991, Cosa Nostra stava già progettando l’uccisione di Paolo Borsellino, come rivelato dal collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, mafioso di Castelvetrano il quale affermava che il suo capo Antonio Vaccarino (ex sindaco democristiano del paese) gli avrebbe detto di tenersi pronto per l’esecuzione, che si sarebbe dovuta effettuare mediante un fucile di precisione o con un’autobomba. Da Calcara ricevette un abbraccio, creando stupore persino nel Magistrato.
“Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”. Paolo Borsellino fece questa dichiarazione durante un’intervista fatta dal giornalista Lamberto Sposini il 24 giugno del 1992, in seguito all’omicidio dell’amico Giovanni Falcone.
Nonostante fosse duramente colpito dalla perdita dell’amico, Paolo Borsellino continuò a lavorare senza sosta contro il mostro mafioso e partecipò a numerose interviste e convegni per denunciare l’isolamento, da parte della politica, dei giudici che lottavano contro la mafia.
Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia di Carini con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano sua madre e sua sorella Rita. Alle 16:58 una Fiat 126 imbottita di tritolo, che era parcheggiata sotto l’abitazione della madre, detonò al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Borsellino anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu Antonio Vullo perché al momento dell’esplosione, aveva parcheggiato la macchina in uno dei vicoli.
Nonostante sia riverito ad oggi come un eroe, com’è giusto che sia, sono stati in tanti tra autori, giornalisti, magistrati e familiari di Paolo ad insistere sulla Strage di Stato. Cosa più che evidente visto l’isolamento che ha subito da parte degli apparati statali dell’epoca.
A distanza di 29 anni ed alla luce di quello che poi abbiamo vissuto permettetemi di scrivere che: “Se Paolo Borsellino fosse vissuto ai giorni nostri, sarebbe stato etichettato come un mafiofobo disturbatore degli onesti uomini d’affari”.
di Vittorio Emanuele Miranda – EmmeReports