Angelo Diquattro è un artista siciliano che ha trascorso gran parte della propria vita in una terra suggestiva e unica, candida e carsica, un pezzo d’Africa incastrato al centro del Mediterraneo tra l’Europa e lo sconfinato sud. Ragusa, città natale, è quel che di barocco fu costruito dopo un violentissimo terremoto ma le radici dei monti Iblei, patria e culla artistica del Maestro, affondano nella preistoria della nostra civiltà. Questi monti un tempo fitti di boschi, sono tagliati da gole profonde, scavati in grotte e antri dall’incessante martellare della pioggia sotterranea, sono pregni di acqua nascosta, intrisi di ombre, di muschi, di umidità silenziosa. Quando, all’inizio della storia, si tagliarono le foreste per votare l’agricoltura al frumento, la natura selvatica fu sostituita da verdi giganti, dalla forma solenne e scultorea, i carrubi, piante secolari che legano alle acque profonde la loro continua, rigogliosa bellezza. Disseminati sui bianchi altipiani, modellati dal morso affamato degli erbivori, penetrano la terra portando ombra e protezione nelle distese secche calcinate dal sole. In questa zolla di Sicilia, storicamente arroccata nella propria operosa e infaticabile esistenza ma capace di protendersi nel mare fino a comprendere l’arcipelago maltese, in questo centro di commerci e scrigno di opulenta ricchezza è nato il 31 luglio 1951 Angelo Diquattro.
Non ha studiato all’Accademia, è figlio di un mastro di pietra, di un uomo che segnava la propria terra con il rigore avvolgente, sudato e duraturo dei muri a secco, costruiti col bianco calcare, stratificato sui fondali di oceani perduti. Costruire murature di confine, di riparo, seguendo i fianchi delle montagne era come scolpire il paesaggio, assecondando i flussi delle acque, per portarli all’agricoltura secondo la millenaria sapienza portata dagli arabi e maturata nel deserto: una maestria artigiana che ritroviamo nelle pennellate del figlio, nel suo riquadrare, spartire la tela per dare il giusto spazio e peso alle immagini della memoria. Il padre aveva vissuto la Libia coloniale, così come per un altro artista italiano, Mario Schifano, che ha costruito lo spazio visivo attraverso il ritmo del racconto. La Libia imperiale era figlia di un sogno, guerresco e ambizioso, sanguinariamente eroico; la Ragusa del Ventennio pulsava della stessa ambizione, sugli echi futuristi di Totò Giurato che aveva partecipato con Gabriele D’Annunzio alla presa di Fiume. Nella città iblea che da lì a pochi anni vedrà nascere Angelo Diquattro si rifletteva un’Italia proiettata verso un futuro libero da vincoli feudali, acceso nell’aspro dibattito fra regime e istanze socialiste. Poi, d’improvviso i martellanti bombardamenti per lo sbarco del 1943, sulla costa un tempo protetta dall’aeroporto militare di Comiso. Ragusa al centro dell’avanzata Alleata verso Nord, poi finita la guerra ancora punto nevralgico della guerra fredda, quando negli anni Ottanta decine di migliaia di pacifisti protestarono all’aeroporto Magliocco contro l’installazione di testate nucleari da schierare verso la cortina di ferro: Comiso chiedeva un mondo diverso, senza gli equilibri giocati sul terrore.
In quegli anni Angelo Diquattro, che già aveva raccolto ancora bambino un primo riconoscimento nel concorso scolastico, immagina e sviluppa un proprio linguaggio espressivo esponendo nelle piccole realtà locali e avvicinandosi all’arte del Novecento frequentando la cerchia di intellettuali legati alla galleria ragusana Nuova figurazione. L’artista, uomo affabile, cortese ma silenzioso, credente senza ostentare la propria fede, chiuso nel perimetro di una vita artigiana, raccoglie le voci degli artisti come echi lontani e prova a parlare il linguaggio dei maestri, rielaborandolo in una solitaria e intima riflessione. Studia profondamente la lezione di Paul Klee e, nonostante l’artista tedesco fosse morto da meno di mezzo secolo, la sua voce di docente sembra ancora riverberare nelle tele del suo allievo virtuale e lontano. Klee, chiamato da Walter Gropius, aveva insegnato al Bauhaus e prima ancora fatto parte dell’esperienza d’avanguardia Der blaue Reiter, Il cavaliere azzurro. Prima di essere allontanato dal mondo accademico come arte degenerata, secondo le disposizioni del Nazionalsocialismo, i suoi colori avevano brillato con lirica delicatezza, raccontando attraverso forme e cromie le emozioni più intime e il mondo non per come lo si vede ma filtrato e riflesso nell’animo dell’artista. Paul Klee, violinista capace, soldato sul fronte tedesco nella Grande Guerra, malato ed esule nella Svizzera materna, aveva conosciuto il colore nella sua forza vitale solo immergendosi nella luce mediterranea di Tunisi e Hammamet. Posto dalla storia negli orrori del conflitto e poi schiacciato dalla brutalità nazista, Klee seppe comunque mantenere un equilibrio affidando alla creazione artistica un ruolo catartico e di sublimazione dell’esperienza.
Così si racconta Angelo Diquattro, nella maturità della sua carriera e ormai prossimo ai settant’anni: “La mia pittura non si svincola dalla realtà, dove riaffiorano paesaggi in miniatura. Il mio sguardo è rivolto al nostro mondo contemporaneo e soprattutto la mia poetica ricca di segni e colori che si fondono in un’unica materia, rievocano paesaggi oggi totalmente in dissoluzione. Le mie opere raffigurano frammenti di paesaggio decontestualizzati con un approccio espressionistico astratto e richiamano il tema a me caro dell’ambiente ferito, inquinato e profanato dall’azione dell’uomo. Da qui nascono titoli come “Flash di memorie”, “Paesaggio delle memorie”, “Sintesi di paesaggio” e infine “Paesaggio in dissoluzione”.
Angelo Diquattro dipinge ad olio su tela e anche quando assembla materiali diversi, ritagli di stampa e usa supporti più fragili, come la carta, il processo creativo è costante e riconoscibile. Cerchiamo di descriverlo e trovare la chiave di lettura delle sue opere: la costruzione dell’immagine è fatta per linee parallele. Gli incroci delle linee sono ortogonali, quindi la forma di base è quadrata. Questa figura geometrica, di assoluta stabilità e riposo viene ripresa come modulo per costruire la composizione. Quindi la forma base diventa più complessa, è un reticolo, una griglia, un ripetersi ritmico. L’artista, raccontandosi, ha ricordato la sua passione anche per la musica e l’abilità nel suonare la chitarra, talento che poi non ha sviluppato dedicandosi principalmente alla pittura. Il ritmo, la pulsazione è una costante nella sua mente, ma non viene sempre battuto: è la cadenza che si ripete, che va a strutturare lo spazio; tipico di una terra agricola, attenta al ripetersi dei giorni, alla prevedibilità delle stagioni, alla semina e al raccolto: dà sicurezza, lo si percepisce incessante ma non soffoca e non incatena; è lo svolgersi di ogni vita, dall’accendersi alla dissoluzione. Anche il paesaggio ragusano si sviluppa per linee parallele, per tagli ortogonali: i muri seguono il profilo dei monti e lo riquadrano; dove ancora è bosco e il muro manca esiste già nella mente dell’osservatore la griglia progettuale per andare avanti, serve solo la pazienza e la fatica del mastro che trovi a ogni pietra il proprio letto di pace.
La sua emozione non è barocca perché Angelo Diquattro non cerca la narrazione inclusiva, istantanea e teatrale dell’osservatore. Apre l’immagine, così come faceva Mario Schifano, a molteplici sguardi legati dal filo non razionale della memoria. Sviluppa questi sguardi, però, cercando di legarli per dare all’opera una finitezza artigianale, una compiutezza delicata simile ad una auto rappresentazione, dell’individuo attraverso il proprio legame con il mondo. L’universo dell’artista potrebbe diventare un linguaggio ma non punta a descrivere ogni vissuto: si concentra invece a narrare il proprio spazio carsico, scavato, coltivato, antropizzato e improvvisamente perduto di fronte all’inesorabile avanzata della globalizzazione.
Angelo Diquattro costruisce il paesaggio nella maniera più spontanea, semplice e naturale possibile: il piano dell’appoggio, della fisicità, della materia lega l’artista all’osservatore. E’ orizzontale e senza ostacoli, accomuna, avvicina, è un sorriso, uno sguardo gentile, l’incrociarsi di occhi che ancora non si conoscono. Il cielo è altrettanto piatto, infinito e lontano. Non è indifferente ma accompagna con vivido e luminoso distacco lo scorrere e il frangersi delle vite sulla terra. In questo cammino assolato, fatto di molteplici solitudini campeggia minuscola una macchia verde vescica, un nido d’ombra, un abbraccio lontano: è il carrubo, simbolo di forza, di resilienza e di pace. Il luogo verso il quale ognuno di noi cammina, fiducioso che non ci sia tradimento ma solo volontà di arrivare assieme a riposare in silenzio.
Il cielo è blu cobalto, l’ombra verde legata da lunghe radici all’acqua e alla terra, il candore della luce si mescola al giallo Napoli, alla terra di Siena che sono entrambi i colori dei giorni che passano, delle stagioni e dei ricordi; colori che nascondono i rossi tumultuosi delle emozioni lasciandoli fra tela e superficie, abbastanza forti da farsi ancora notare ma velati, corrosi, coperti perché l’uomo è solo un passaggio di fronte all’immensità della vita donata e del tempo creato. La realtà è materia, tela, carta, tessuto, pigmento che si sovrappone e solo in minima parte restituisce la percezione: come se l’individuo acquistasse valore per quanto riesce a trattenere, a conservare nell’intimo, a custodire il paesaggio interiore, ultimo riflesso di un continuo svanire e corrompersi.
Angelo Diquattro non nega l’ironia e spiega così la traccia a matita del proprio codice fiscale, di un semplice appunto scritto sulla superficie del dipinto. E’ una spiegazione beffarda e sottile, quasi un inganno. La società fatta ormai di burocrazie, di relazioni contabili e di scadenze, capace di divorare qualsiasi esistenza trasformando il lavoro in contribuzione e ogni progetto in concessioni, lascia all’individuo tre sfere distinte e dissociate: gli affetti in cui si rifugia, un credo che dà il significato all’essere nati e un’identità amministrativa, disumanizzata e alienante. Il codice fiscale è un autoritratto ironico, di chi ha sopportato la trasformazione della persona in semplice numero. Graffiarlo sulla superficie della propria arte è sicuramente un riappropriarsi dell’umanità, dell’unicità, di essere comunque una creatura capace di ascoltare e assorbire quanto ci sta attorno e di riproporlo ogni volta rinnovato nella sua elementare bellezza.
Dalla lezione di Paul Klee Angelo Diquattro riesce a fare proprie molte importanti intuizioni: supera la rigidità degli schemi strutturali e geometrici pur mantenendo il rigore di una costruzione logica. Quello che potrebbe essere prevedibile diventa invece una tessitura cromatica su cui brillano istanti di assoluta quiete e consapevolezza; padroneggia le sovrapposizioni, l’apparente ripetizione e coesistenza di elementi simili in una nuova comprensione del reale costruita con elementi semplici aggregati in realtà sempre più complesse senza tuttavia perdere l’equilibrio dell’intera composizione. Opere sedimentarie e polimateriche, frutto di una riflessione introspettiva che riescono a mantenere la propria visione unitaria, anche quando si presentano spezzate come nel Trittico Paesaggi del 2012.
di Massimiliano Reggiani
Ricerche ed editing a cura di Monica Cerrito