Per scrivere di Mario Schifano occorre studiare la storia, per guardare le sue opere e comprenderne il messaggio intriso di fragilità, spaesamento e dolcezza è necessario abbandonare gli schemi dell’estetica aprendosi alla poesia e all’emozione. L’artista nasce nel 1934 a Homs in Libia, è un figlio dell’impero coloniale, in una città di artigiani e agricoltori che da oltre trent’anni subiva l’arrogante e violenta presenza italiana, con l’inaudito rombo dell’89° Squadriglia Servizio Aeronautico del Regio Esercito. Un contrasto drammatico fra innovazione e resistenza, pulsare dei motori e antichi ritmi della natura. Nell’infanzia i simboli ostentati di una patria lontana, alle spalle quelli antichi di Roma dissepolti dal padre archeologo nella vicina Leptis Magna, la città natale di Settimio Severo. Pochi anni dopo ancora insegne, stemmi di un altro Impero, quello britannico che strappa le colonie e si allarga nel Mediterraneo.
Mario Schifano segue la famiglia a Roma e ancor più entra nell’universo antico: dalla Tripolitania, dall’antica provincia d’Africa al cuore dell’Impero, sia quello consumato dai secoli che l’altro appena dissolto dalla guerra. Lavora da apprendista restauratore nel Museo Etrusco di Villa Giulia, restando a contatto con simboli ancora una volta diversi, più astratti e geometrizzanti, riflessi di una cultura più antica permeata sì di violenza ma anche assetata di vita. È in questo contatto soffocante con tante realtà assertive, presenti nonostante la polvere dei secoli o i bombardamenti subiti, che ritengo si possa trovare la chiave per entrare nel mondo più intimo dell’artista, graffiante e disperato, virile e fragile, dionisiaco e malinconico. Non è un caso che la sua mostra d’esordio, una collettiva di cinque pittori romani Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini sia presentato dal critico francese Pierre Restany. il filosofo critico d’arte francese, che aveva vissuto a sua volta un’adolescenza coloniale a Casablanca, teorizzò un riciclo poetico della realtà urbana, industriale e pubblicitaria cercando di abbattere il dogma che l’arte dovesse significare qualcosa, dovesse cioè rappresentare – in altre parole – l’ideale positivo cui uniformarsi.
Mario Schifano accoglie nelle sue opere materia cromatica, stralci di video, segnali stradali, marchi, lettere, spartiti, frammenti di paesaggio, come se tutto fosse un’immagine semplicemente percepita, non rielaborata. Questo perché il mondo non assomiglia ai valori ostentati, è semplicemente realtà che ognuno si porta dentro, cucita negli stracci del proprio passato, nel coraggio di pensare a un domani nonostante i drammi individualmente vissuti nel teatro della storia. Ha conosciuto gli Stati Uniti in compagnia di Tonino Guerra, poeta e pittore che fu internato nel lager emiliano di Fossoli per il suo antifascismo e deportato nel Reich. A New York frequenta Andy Warhol ma si lega soprattutto a Frank O’Hara, poeta, scrittore e critico d’arte ma anche curatore del Museum of Modern Art. O’Hara, che morirà pochi anni più tardi appena quarantenne, aveva vissuto nella marina statunitense dislocata nell’Oceano Pacifico i propri anni di guerra, non lontano dagli scenari atomici che segnarono il crollo dell’Impero nipponico. Eppure la sua poesia è un inno alla quotidianità, alla comunicazione. “I am the least difficult of men. All I want is boundless love Even trees understand me! Good heavens, I lie under them, too, don’t I? I’m just like a pile of leaves” (Sono il meno difficile degli uomini. Tutto quello che voglio è un amore sconfinato. Anche gli alberi mi capiscono! Santo cielo, anch’io mi sdraio sotto di loro, vero? Sono proprio come un mucchio di foglie).
Passato remoto, passato prossimo, futuro semplice: sono i tempi con cui ragiona l’artista. Non è la costruzione di uno stile, di un linguaggio, quello che lo interessa è il rapporto diretto con la realtà. Mario Schifano vive con passione e fragilità, turbato da questo presente fluido, mediato, trasformato in prodotto o slogan; cerca un rifugio negli stupefacenti, una ragione di vita nell’orizzonte come spazio neutro fra terra e cielo, nel pulsare quasi ossessivo della musica Underground. Mescola immagini e suono, creando nel 1967 al Piper Club di Roma il primo Live show multimediale italiano: esordiscono Le stelle di Mario Schifano, un gruppo rock psichedelico. Lui è immerso nella scena musicale, nei viaggi a Londra si frequenta con i Rolling Stones che esibiscono un hard rock impregnato di blues, la cui matrice è quindi fatta d’insofferenza mai rassegnata e di lamento, sublimato nel ritmo travolgente.
Cosa cerca Mario Schifano nell’arte? Comunicazione, oltre ogni ideologia. Impegno civile, urgenze ambientali, guerre che nascondono profitti, la corsa allo spazio siderale, i laboratori della Nasa, la chirurgia pionieristica, il tentato dominio sulla forza nucleare, la realtà manipolata dai media: lo sconvolgente paesaggio del mondo contemporaneo, fatto di propaganda che stride e contrasta con il suo prepotente desiderio di pace e di abbandono a una serenità interiore. L’emulsione fotografica, gli smalti industriali, la stampa serigrafica e la cinematografia sperimentale sono i nuovi materiali di un’arte che non giudica ma raccoglie ferite di una realtà contundente, che cerca disperatamente un istante di equilibrio e pace, nello sguardo sulle luci di un treno che passa, di una nave nel silenzio della notte, nel guizzo dei pesci, nel riflesso di uno stagno fiorito: momenti in cui l’artista, ma soprattutto l’uomo, trova un’inaspettata sintonia con il cosmo. Mario Schifano non vedrà il terzo millennio: muore a Roma, nel 1998.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports
Ricerche ed editing a cura di Monica Cerrito
fotografie Tony Filippone (courtesy Centro d’arte Raffaello)
“Mario Schifano” a cura di Giuseppe Carli
Centro d’arte Raffaello, Via Notarbartolo 9/E, Palermo
sino al 29 maggio 2021
da lunedì a sabato, dalle 10 alle 13 e dalle 16.30 alle 19.30
Chiuso domenica e il lunedì mattina.