Disegnare con la biro su un foglio di carta, sulla pagina di un’agenda, sul giornale mentre si prendono appunti, in una pausa di riflessione, per scaricare una tensione nervosa: a tutti noi è capitato e ognuno ha lasciato i propri scarabocchi senza dargli particolare importanza. Disegnando, però abbiamo lasciato un segno volontario che non è alfabeto e spesso nemmeno rappresentazione, è la traccia di un pensiero che si materializza in una successione disordinata di linee. C’è invece chi, come Fabio Caci, artista siciliano dal tratto di grande eleganza, disegnando rappresenta il mondo delle proprie visioni interiori, di valori etici limati nel tempo fino a diventare espressione di un modo personale e coerente di vedere la vita e soprattutto la relazione con il tempo e la posizione dell’uomo nell’universo. Già per questo è importante conoscere e comprendere l’opera di Fabio Caci, perché raramente nell’arte contemporanea si trova espressa una tale complessità e vivacità di pensiero. Le sue opere, però, non sono disegni perché il disegno è fatto di linee e ognuna descrive o comunque racconta; qui invece i tratti di biro vengono domati, dosati e combinati con grande maestria. L’artista, in questo caso, dipinge. Lo fa perché è consapevole della fisiologia della visione: i tratti si sommano fino a rendere la percezione del colore, della velatura, dello sfumato. Solo chi ha pratica nell’arte può comprendere appieno quanta meticolosa pazienza, quanto ragionamento e quante ore possano scorrere affinché un’opera così complessa possa trasformarsi in realtà. Dipingere con la biro ha la stessa tensione di un acquarello: ogni gesto è definitivo, irrevocabile, tende all’assoluto. La carta assorbe e non può esserci pentimento ma solo la consapevolezza di non aver saputo prevedere l’esito di un gesto: l’acqua che si espande o il segno della biro non lasciano possibilità di correzione; si deve provare una vertigine quando la mano, nel silenzio dello studio, traccia quello che la mente ha già immaginato con chiarezza, che già vede nell’immaterialità del pensiero. La mano esegue, la volontà comanda, il caso e l’approssimazione non hanno cittadinanza: il dipinto è una visione che viene trascritto sul candore del foglio.
Una donna con tre labbra, frutto della fervida immaginazione dell’artista, è una madre natura che a tutti costi cerca il dialogo con l’essere umano. La natura è universale, non ha connotazioni geografiche ed è perfettamente simmetrica perché non ha un fine: riflette sé stessa senza avere inizio, svolgimento, storia. Questa dea madre si presenta attraverso le diverse forme della cultura umana, contemporaneamente: l’acconciatura ci parla d’Oriente e l’abito di broccato della nostra tradizione europea. La simmetria però non corrisponde alla sua presenza, è fuori centro e lo sbilanciamento nasce dalla nostra disarmonia, perché non siamo sullo stesso asse: la natura perciò si muove e sfiora una propria creatura come fosse un gioiello, noi guardiamo con simpatia la chiocciola perché è rotonda, la rana velenosa perché brilla di colore. Il nostro rapporto con lei è distorto, incapace di accettarne la fragile e inesorabile diversità. Ogni contatto rischia così di creare ferite, lacerazioni, pericolo e danno.
Sarebbe invece diverso il rapporto se avessimo saputo mantenere un rispetto danzando nei suoi ritmi fatti di vita, di morte e di continua rigenerazione. L’opera realizzata da Fabio Caci che ha aperto la serie Mater Natura è un momento di contatto, dove gli occhi melanconici della Terra sembrano presagire l’imminente distacco. Ci sono vari simbolismi, l’identificazione del corpo come somma di foglie nel viso e fiori per i capelli, una realtà pulsante di vita animale, di linfa e acqua, di mare e di roccia. Al centro del viso in forma di fallo il dono, l’impollinazione, la scintilla che accende ogni forma di vita complessa; nelle mani che sono muri di pietra e roccia la Natura tiene in equilibrio un uovo. Dita allo stesso tempo forti e delicate, tenute in una posizione d’attesa, indecise se fare nascere un’altra vita oppure con un semplice pressione distruggerla. Noi siamo i figli della vita, una moltitudine di figli, infinita. Figli di forme diverse, cellule di un corpo immenso di cui facciamo necessariamente parte pur affermando, con ogni inutile gesto, ogni giorno il contrario.
Molluschi, coleotteri, falene notturne, lucertole, pesci dalle spine avvelenate, topi che camminano sul volto senza paura: nell’immaginario collettivo sono tutti animali che nessuno vuole attorno, men che meno sul proprio corpo. Sarebbero immagini di un incubo, capaci di svegliare nella maggioranza il senso del ribrezzo o comunque del disappunto. Mater Natura invece, li tiene come preziosi ornamenti, lascia che scivolino sulla pelle di questo ritratto virginale con lo sguardo puntato dritto negli occhi dell’osservatore: non ci offre il suo candido corpo ma ogni aspetto della vita interrogando la nostra maturità, la capacità di accettare l’assolutamente diverso che ha sempre diritto al pieno rispetto, in quanto al nostro pari, essere vivente.
Non è Diana cacciatrice e il pesce che accoglie sul proprio petto guizza di vita, come in un balzo per tornare dal mare alla sorgente. La testa comincia a deformarsi, la spinta riproduttiva ne sta cambiando la forma del corpo e i suoi colori diventano livrea nuziale. Anche Mater Natura è vestita a festa, un filo di perle fra i capelli avvolto in una spirale che la unisce al cielo, al collo si presenta in un pentagono stellato che mette al centro la sua fertilità, sul corpetto rinascimentale il filato costruisce trame simboliche: sei occhi apotropaici proteggono questa irruenza sfrenata, le linee ortogonali si intrecciano in un reticolo e ad ogni incrocio fiorisce una gemma preziosa, i decori nascondono l’infinito, grappoli di perle fecondano il tessuto. Le sue mani sono gonfie, lei è piena di linfa. Potrebbe essere una dama con ermellino, è invece il rapimento estatico di una turgida primavera.
Dalla natura alla donna, dall’universalità alla quintessenza: Donna Rosalia non è la Santa normanna ma l’espressione siciliana di quel mondo generativo, acqueo e multiforme che abbiamo visto nelle precedenti opere. In ogni femminilità Mater Natura si ripresenta, si specchia come una Venere sulla superficie lucente di un lago. A questa purezza però si sovrappone il mondo dell’uomo, il suo castello di cultura e filosofie, i capelli perdono la morbidezza delle spighe mature e si fanno intrico e vortice; sul volto spirali che tradiscono radici mediorientali ombrano la pelle, così come il cuore palpita trafitto e la totalità diventa improvvisamente luogo, profilo conosciuto, esperienza. C’è malinconia e voglia di infinito, allo stesso tempo c’è realtà e gabbia in cui tutto si contorce, si affanna e non trova uscita. Rosalia vive la realtà ma sogna di tornare all’origine, libera e carezzata dal vento.
Tutto è partito da un foglio bianco, senza prospettiva con un uso sapiente dello scorcio, Fabio Caci ha saputo donare al candore i colori e la lucentezza di uno smalto. Lo ha fatto ripetendo con infinita pazienza linee di tinte differenti che l’osservatore percepisce come sfumati, come campiture, come superfici scabre o vellutate, lucide o soffici. Ha scavato nella profondità del foglio regalandoci l’illusione di uno spazio, concreto e vicino. Ha saputo cogliere l’angolatura più adatta per rendere ogni forma elegante e chiara. Nel continuo ripetere questo busto di donna, frontale e diretto è riuscito a riportare nella rappresentazione la sacralità di una presenza che non è racconto, mito o leggenda ma realtà universale. Proprio per questo Mater Natura può e deve contenere ogni cosa e lo fa senza patire sforzo. Guardandola siamo costretti a riflettere sul nostro ruolo nel mondo, che dovrebbe essere molto più di stupore che di sfida o appropriazione. Purtroppo, e l’artista lo sa, manca sia la capacità di meravigliarsi che il rispetto. Di fronte alla nostra ottusità e all’indifferenza che ne è l’insipido frutto questa epifania si ritrae e scompare. Un viso che sembra scendere verso il margine del foglio, sconfitto e amareggiato, un volto impotente e spaventato ormai deciso a scomparire, ferito e dilaniato, offeso con inserti meccanici di orologio rotti ci indica che il tempo della riappacificazione ormai irrimediabilmente volge al termine.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports
Ricerche ed editing a cura di Monica Cerrito