Questa è una delle tante storie degli anni di piombo in cui lo scontro politico era una realtà quotidiana, dove le botte per le strade e nelle scuole tra i “rossi” e i “neri” si svolgevano senza esclusione di colpi e purtroppo, finivano spesso tra le pagine della cronaca nera.
Racconterò di uno degli omicidi, secondo me, più efferati della Storia degli anni di piombo: l’uccisione del militante del Fronte della Gioventù, Sergio Ramelli.
Nato l’8 luglio del 1956 a Milano, Sergio Ramelli era una persona comunissima e viveva normalmente i suoi 18 anni: tra lo studio, le partite di calcio tra le fila della squadra del suo quartiere, la fidanzata e la militanza politica nel Fronte della Gioventù.
Era studente presso l’Istituto tecnico Molinari di Milano e in un tema scolastico in cui aveva mostrato disappunto per le violenze delle Brigate Rosse, gli costò l’essere bollato come nemico pubblico della scuola e… svariate aggressioni.
Fu vittima di un “processo popolare” da parte delle componenti scolastiche di estrema sinistra che portò alla sua espulsione dall’Istituto nell’indifferenza generale e senza l’appoggio di alcuno.
Nonostante le aggressioni e l’espulsione dall’istituto Molinari, Sergio decise di portare avanti le sue idee, continuando la sua militanza nel Fronte della Gioventù.
Venne quindi identificato, minacciato, inseguito e poi aggredito in un bar, insieme al fratello e poi il 13 marzo 1975 mentre stava parcheggiando il suo motorino in via Paladini venne raggiunto da un commando di Avanguardia Operaia composto da Marco Costa, Giuseppe Ferrari Bravo, Claudio Colosio, Antonio Belpiede, Brunella Colombelli, Franco Castelli, Claudio Scazza e Luigi Montinari.
Gli aprirono la testa a colpi di chiavi inglese, Sergio Ramelli morì 47 giorni dopo, il 29 aprile 1975 al termine di una tremenda agonia costituita da uno stato comatoso alternato a brevi momenti di lucidità.
Si, credo che sia il caso di dire che, come in tanti altri casi, la morte oltre la falce porta anche il martello, ben protetta dallo scudo crociato recante la scritta “Libertas”.
I funerali ebbero luogo nella Chiesa dei Santi Nereo e Achilleo ed il feretro di Sergio Ramelli fu fatto arrivare in chiesa quasi di nascosto perché le autorità locali avevano vietato il corteo funebre per evitare disordini con gli estremisti di sinistra che avevano minacciato di usare delle chiavi inglesi contro eventuali partecipanti. Il corpo di Sergio fu inumato nella tomba di famiglia presso il Cimitero Maggiore di Lodi.
L’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone inviò una corona di fiori ed ai funerali del giovane militante di estrema destra presenziò l’allora segretario del MSI Giorgio Almirante. A cerimonia terminata, circa 30 giovani, inneggiando alla figura del Duce, cercarono di raggiungere una vicina sede del Partito Comunista Italiano, ma furono dispersi dalla polizia che evitò il peggio.
Il 16 marzo 1987 prese avvio il processo per gli imputati della morte di Sergio Ramelli che riporto di seguito:
Claudio Colosio, Franco Castelli, Giuseppe Ferrari Bravo, Luigi Montinari, Walter Cavallari, Claudio Scazza: medici praticanti in diverse discipline e studenti all’epoca dei fatti. Ad essi si aggiunse anche Brunella Colombelli, unica donna tra gli accusati, divenuta poi ricercatrice;
Giovanni Di Domenico, al momento dell’arresto consigliere in forza di Democrazia Proletaria a Gorgonzola;
Antonio Belpiede, capogruppo del PCI a Cerignola (Foggia);
Marco Costa, che con Ferrari Bravo gestiva l’archivio segreto.
Furono collegati tutti al gruppo estremista Avanguardia operaia e potrei dire che, a giudicare dalle professioni, un’avanguardia che di operaio non aveva assolutamente nulla.
16 maggio 1987 la II Corte d’assise di Milano assolse Di Domenico per insufficienza di prove e dichiarò Cavallari estraneo ai fatti. Tutti gli altri imputati furono ritenuti colpevoli di omicidio preterintenzionale in quanto venne di fatto riconosciuta l’accettazione del rischio di uccidere insito nell’atto di violenza, ma non la volontarietà dell’atto.
Marco Costa fu condannato a 15 anni e 6 mesi di reclusione; Giuseppe Ferrari Bravo a 15 anni, entrambi per aver materialmente colpito Ramelli. Claudio Colosio fu condannato a 15 anni; per Antonio Belpiede e Brunella Colombelli rispettivamente 13 e 12 anni di reclusione (per aver indicato al commando di Avanguardia Operaia il luogo e l’ora in cui colpire); infine a Franco Castelli, Claudio Scazza e Luigi Montinari furono dati 11 anni.
Tutte condanne irrisorie che avrebbero dovuto costare la radiazione dall’Ordine dei medici, mentre oggi alcuni di loro sono medici in carriera ed operativi.
Tuttavia, sembra che a volte gli spettri del passato ritornino: a metà aprile dello scorso anno, le segnalazioni su quel passato spingono la Regione Lombardia ad estromettere Colosio dal Comitato tecnico scientifico per l’emergenza Coronavirus. Colosio non protestò e dichiarò: “Mi ritrovo a fare i conti con una triste vicenda accaduta 45 anni fa. Fatico a parlare di una storia che ha causato tanto dolore. Credo sia il momento di pensare ad una vera riconciliazione nazionale, anche a fronte della tragica emergenza che stiamo vivendo. Spero che i giovani non ripetano più gli errori del passato” mostrando un cenno di pentimento.
Una pagina, quella degli anni di piombo, di ancora difficile interpretazione soprattutto se riguarda quei giovani che, con le proprie azioni criminose, causarono la morte in nome di una idea di sinistra o di destra che sia. Quella di Sergio Ramelli, secondo me, è una storia ancora più triste perché morto solto i colpi di chi, a distanza di anni, sembra quasi si sia voluto giustificare perché facente parte degli assassini “buoni”.
di Vittorio Emanuele Miranda – EmmeReports