Con il finire dell’inverno si concluderà a Londra un evento dove il colore prorompe da ogni tela, chiama la primavera come un inno vibrante di luce e di emozione: non parla di natura, è decisamente collettiva, quasi impersonale. È figlia di un grande movimento artistico del dopoguerra e lo richiama già nel titolo in maniera diretta, senza ipocrisia. Così ne parla la prestigiosa 508 Gallery: “Pop of colour la mostra che si chiuderà il 22 marzo, ha lo scopo di celebrare la primavera dei colori che esistono intorno a noi. Abbiamo selezionato alcune opere straordinarie dei nostri fantastici artisti residenti, Enrico Cecotto, Felix Feltrin e Fringe”. Si fa presto a dire Pop Art, per molti è una nozione confusa dove si mescolano tinte brillanti, personaggi famosi e il fascino delle metropoli d’oltreoceano. Dobbiamo invece capire, a oltre mezzo secolo dalla nascita di questa nuova estetica, cosa rimanga delle origini e ciò che può rappresentare oggi; cerchiamo intanto di conoscere i tre autori che stanno esponendo a Londra nella King’s Road al civico 508 la strada che è stata fulcro della moda mondiale al tempo della minigonna e di Mary Quant.
Enrico Cecotto, che abbiamo già conosciuto col murale di Palermo e nell’intervista sullo squalo come personale animale totemico e metafora di sopravvivenza per l’uomo moderno, presenta sia il predatore marino caricato di simboli che le ansie di scalata sociale, di ostentazione della ricchezza e l’ineluttabile incubo della morte che ci divora.
FRINGE nel 2015, dopo un lungo successo nella pubblicità, si è trasferito a New York per assorbire l’universo cromatico e visivo della grande mela, l’immaginario e il linguaggio visivo di un’intera società. Tornato poi in Sud Africa inizia a creare opere d’arte uniche basate su simboli pop, campagne pubblicitarie e tecniche di graffiti. Fringe, pseudonimo dell’artista nato a Johannesburg nel 1976, è attualmente considerato una delle voci importanti nel panorama Pop internazionale.
Felix Feltrin invece si esprime con uno stile eclettico e caleidoscopico, frutto di un’esperienza veramente multiculturale a partire dalle radici che mescolano sangue italiano e caraibico, esperienze tra Brasile, Stati Uniti e Mitteleuropa: l’artista, infatti, vive e lavora attualmente in Austria. Poliglotta, capace di parlare fluentemente cinque lingue, usa il colore sempre spinto al massimo delle sue intrinseche caratteristiche espressive, trattandolo sia come materia grezza e lucente che per rappresentare i fantasmi di un immaginario quasi fumettistico.
Tutti e tre parlano un linguaggio metropolitano, fatto di persone ma soprattutto di ruoli sociali, di rapporti di forza, di natura richiamata per raccontare in forma accattivante, metaforica, stupefacente sempre il medesimo ambiente sociale spinto all’eccesso, non più dinamico ma frenetico, non più emozionale ma angosciato. Un mondo fatto di milioni d’uomini nella cui mente sta nascendo una nuova mitologia, fatta di archetipi sconosciuti: il predatore, il felino, il formicolare dei colori, l’afasia per un discorso articolato che diventa simbolo, concetto elementare tanto diretto quanto disperato, tanto esplicito quanto allo stesso tempo fragile, romantico e violento.
Sicuramente è qualcosa di completamente diverso e nuovo dalla Factory di Andy Warhol dei primi anni Sessanta dove si osservava con un senso quasi di estasi il formarsi di nuove e mai viste realtà visive: gli oggetti riproposti all’infinito sugli scaffali degli ipermercati, il mondo conosciuto e conoscibile solo attraverso immagini ripetute, ossessive, tanto vere quanto distanti dalla verità delle emozioni. Warhol sentiva il nascere di un mondo dell’apparenza, dove l’esperienza un tempo diretta era mediata, suggerita e si trasformava in suggestione. È diverso da Roy Lichtenstein, l’artista inglese che si interrogava, riproducendo le nuove dinamiche sociali attraverso la riproposizione del fumetto, affascinato e scosso dalla sua disorientante caratteristica di esprimere passioni ed emozioni violente in uno stile completamente meccanico e distaccato. Roy Lichtenstein temeva questo incitamento a sopprimere l’empatia orientando le emozioni in condotte forzate: sentiva ancora sottotraccia i meccanismi della propaganda totalitaria e ha lanciato un grido d’allarme che si è perso nel vento. “Pop of colour” è diverso da Robert Rauschenberg perché l’artista americano continuava a parlare della realtà anche se lo faceva attraverso tracce, oggetti, immagini dei rotocalchi, colori e materia raggrumata per dare corpo alle sue intime emozioni, al disincanto, alla speranza.
FRINGE, Felix Feltrin e Enrico Cecotto ci portano invece nella grande nuvola pulsante, labirintica, neuronale iperattiva e claustrofobica del pensiero collettivo in cui i nuovi archetipi iniziano a dialogare fra di loro, a creare una sconosciuta mitologia. Non rappresentano più lo scorrere della vita ma sono diventati essi stessi realtà: la nuova Pop Art è l’autorappresentazione del pensiero urbano.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports
Ricerche ed editing a cura di Monica Cerrito
“Pop of colour”
508 Gallery – Londra, 508 Kings Road, Chelsea
fino al 22 marzo 2021