A Kanyamahoro, nel nord est del Congo, a pochi km da Goma, nel solco scandito dalla Rift valley, in quella fascia di terra meravigliosa che costeggia la riva del lago Kivu, famosa per la collina delle tre antenne, si è consumato l’ennesimo attentato, un attacco probabilmente fallito nel suo intento, ma in grado di riportare l’attenzione, ancora una volta, sulle vicende criminali di una zona contesa fra tre Paesi ma off limits per i suoi stessi governi.
L’ attacco terroristico, indirizzato al convoglio della Monusco, missione ONU finalizzata alla stabilizzazione nella RDC, che ha ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il Carabiniere trentenne Vittorio Iacovacci e il loro autista Mustapha Milambo, ha piuttosto ricordato l’instabilità cronica del Paese democratico soltanto nella sua denominazione.
Le tensioni per una crisi politica ormai costante sono aumentate, acuite da anni di instabilità sociale e dalla pandemia, e persino dalla recrudescenza del virus ebola nella zona est dell’enorme territorio congolese. Proprio a est, dove operano impunite le milizie hutu delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, FDLR, fondate nel 2000 dai fuoriusciti hutu scampati al genocidio ruandese del 1994. Da vittima a carnefice il passo è breve, prepotenza e supremazia si abbeverano nello stesso stagno.
Le FDLR oggi rivendicano l’attentato all’ambasciatore plenipotenziario conosciuto come il diplomatico buono, l’italiano che insieme alla moglie, Zakia Seddiki, fondatrice dell’associazione “Mama Sofia”, si è speso in progetti umanitari ricevendo il premio internazionale Nassiriya per la Pace.
Nonostante le prime elezioni parlamentari libere del 2006 ci abbiano fatto sognare, in quanto europei che si confortano al suono della parola democrazia, il Congo ha continuato a marcire sotto l’egida dell’ONU, delle grandi potenze che si spartiscono il suo “capitale” e del mondo intero, indifferente ad un conflitto tanto incancrenito quanto rimosso, che in quelle zone viene vissuto come perenne terza guerra mondiale.
Il Congo, Paese dai molti laghi è un luogo incantevole e ricco di ogni pietra, metallo, liquido prezioso. Tutto ciò che nasce nel Paese genera interesse, oltre i confini.
Nella neonata Repubblica semipresidenziale del Congo il capo di governo, Jean Michel Sama Lukonde Kyenge, è, non a caso, un magnate del settore minerario, ex direttore della Gecamines, società statale di estrazione di minerali e metalli succeduta negli anni sessanta alla “Union Minière du Haut Katanga”.
L’immensa riserva di cobalto, coltan e oro situata nella regione di Kivu, al confine con Uganda, Burundi e Ruanda, di cui Goma è capoluogo, fa gola ai molti che rischiano di perderci la testa.
Le maggiori risorse naturali dell’intero Paese sono concentrate in questa rigogliosa zona, in prossimità del Parco nazionale dei Vulcani Virunga, antichissima area protetta confinante col Ruanda, data in pasto a bande criminali di diverse fazioni sovvenzionate da potenti predatori d’oltre mare. La chiamano la polveriera d’Africa, nota per le indecenti violazioni dei diritti umani e il massacro di un territorio ricco di polvere preziosa.
In questa palude la democrazia è solo nominale, i gruppi armati pagati manipolati da interessi sovranazionali rivendicano una certa autonomia nella gestione del depredamento delle risorse, e il basso profilo del debole governo centrale, che nemmeno lontanamente riesce a mantenere il controllo delle milizie, è funzionale.
L’unica politica indiscussa è votata al contrabbando dei minerali, incurante dello stato allarmante di miseria e dello sfruttamento della sua stessa popolazione.
di Elena Beninati – EmmeReports