L’artista palermitano Nicola Pucci, prima grafico ma da anni pittore, ha già presentato ai lettori di EmmeReports la sua ultima ricerca “Bolle” in occasione di One Voice, il festival internazionale nato da un’idea di Eugene Lemay e Gil Shavit (Mana Contemporary USA e Monumental Callao Perù), come risposta mondiale dei creativi allo sconforto in cui la pandemia ha fatto precipitare il mondo nel terzo millennio. Pucci è rimasto coerente con il proprio stile puntando l’attenzione su questo elemento di cui tutti abbiamo improvvisamente scoperto l’importanza per la sua potenziale carica virale: l’aria. Rappresentare l’aria, nella sua trasparenza, rendendola elemento di contatto, di protezione, di aggressione, ha fatto entrare negli spazi virtuali dell’artista un nuovo personaggio, traslucido, improvviso legante in situazioni solitamente avulse da ogni narrazione. Nella serie “Bolle” inoltre, la ricerca si amplia al supporto: il rame, un metallo che ossidandosi è capace di interagire con l’aria e porta così l’opera ad avere una successiva vita propria e inaspettata.
L’arte deve essere frutto di ragionamento e tecnica, non solo di impulsi o di asserzioni; deve porre interrogativi ma anche suggerire soluzioni; avere un proprio codice ma è necessario che possa essere spiegata. Di fronte alle opere di Nicola Pucci ci si arrende spesso a dichiararle figurative senza però poterne spiegare il senso. Ricordare che l’autore, onnivoro lettore oltre che artista, abbia apprezzato il teatro di Eugène Ionesco non aiuta a raccontarne i quadri, così come per il drammaturgo rumeno soffermarsi alle surreali conversazioni dei personaggi non svela il dramma di un’umanità intrappolata nelle parole, cieca alla realtà e capace di dialogare solo attraverso trincee o bombardamenti. Nicola Pucci non giudica, ma osserva gli altri per conoscere sé stesso, il suo sguardo è silenzioso e si trasforma in un tratto pulito ed essenziale, forte della preparazione grafica maturata a Roma, nell’Istituto Europeo di Design.
Rappresentare uno spazio, reale o immaginario, è sempre stata una delle grandi sfide nelle arti visive per rendere la narrazione più credibile. Impianti rigorosi e matematici per la prospettiva, abilità di scorcio nel disegnare, colori freddi che si allontanano dall’osservatore, superficie calde e ruvide che sembrano avvicinarsi: sono tutti espedienti tecnici per assecondare con naturalezza la fisiologia della visione. Lo spazio pittorico di Pucci, invece, è plausibile: serve per contenere gli attori, i loro gesti che sono cristallizzati come in un fotogramma. L’illusione di un ambiente tridimensionale è coerente ma non determinante: cancellando le figure rimangono solo suggestioni, rimandi a prospettive, a piani di colore, ad atmosfere di luce senza identità. Comprendere questa pittura, che ritengo errato definire figurativa, è un lento lavoro di sottrazione. Togliere tutto quanto sembra accessorio resta l’unica via per avvicinarsi al significato dell’opera.
La composizione rappresenta nella pittura quel che è la bella forma per lo scrittore. Difficilmente un testo, pur pieno di contenuti, reggerà il confronto del tempo se manca di ritmo, stile ed equilibrio. Allo stesso modo un dipinto, anche quando si sarà smarrito il ricordo del titolo, manterrà un proprio fascino per la compostezza dell’opera e la maestria dell’autore. Pucci ragiona per forme quadrate, che lo aiutano ad aumentare il senso di ieratica immobilità dei corpi, congelati nella tensione di un gesto spesso impegnativo ed agonistico; ha l’intelligenza tecnica di lavorare sulle diagonali raccontando fuori dal centro geometrico della composizione. In questo modo, anche se tutto è rigidamente bloccato, la composizione appare dinamica, piena di energia, in potenziale movimento. I soggetti, nonostante i loro irreali accostamenti, sono comunque legati, diventano interdipendenti. La bolla che diventa quasi altro dalla ragazza, il cavallerizzo che sembra materializzare un pensiero. Tralasciando volutamente il nome dato alle opere possiamo comunque leggere in ognuna un bilanciamento tra chi compie un’azione, anche il semplice pensare, e colui che la subisce o comunque ne è colpito, svolgendo un ruolo passivo. Il tabellone di sughero per le freccette, gli uomini accovacciati, il nuotatore che sbatte sul telo mare, il quotidiano del vicino, il cavallo lanciato nel balzo, il respiro materializzato; ognuno di loro avrebbe meno significato se gli mancasse la controparte attiva.
Anche in un semplice momento, nella frazione più piccola di un movimento complesso o nel fluire disorganizzato dell’abbandono e del riposo gli occhi continuano a percepire e il cervello dare significati, istantanei, che vanno oltre la razionalità e il pensiero articolato. Provando a risolvere un rebus il lettore si concentra sulla parola da abbinare agli elementi della vignetta; togliendo il gioco enigmistico nulla di narrativo resta nella rappresentazione. Apparentemente simile, per la mancanza di una storia, l’opera di Pucci ci obbliga invece a mettere in relazione gli attori e i figuranti dei suoi quadri; la donna guarda e vede col pensiero un proprio ricordo, il giocatore si astrae e calibra la perfezione del proprio gesto. Il ricordo è un’apparizione, il movimento deve essere esemplare, perché compromette altrimenti la vittoria. Il ciclista concreta la fuggevolezza, il volo la perfezione del gesto.
Sembra mancare, in questo gioco di equilibri, quell’istinto che prorompe invece in tutt’altro modo. O è animale, intriso di potenza, lanciato in una corsa folle e disperata, martire e selvaggia, del toro di corrida. O è impulso, impeto, desiderio quasi autodistruttivo di corrompere sfregiando la forma accuratamente dipinta, trascinando i colori nella loro materia per trasformarli in segno, traccia, sofferenza e rivalsa. L’artista si stacca volontariamente dalla propria creazione e la sfida, forse la sente incombere senza nemmeno bisogno di guardarla o cerca di riprenderne il controllo prima di renderla irriconoscibile. L’istinto non ha una forma bloccata e leggibile, è principalmente una macchia scura e possente, dipinta o vissuta.
Nicola Pucci dipinge per intuizioni, la voglia di libertà che diventa un giallo aereo acrobatico, il desiderio di non vivere in gabbia ma di librarsi in un silenzio quasi astratto nella sinergia tra cavallo e cavaliere. Ciò che rappresenta ha un significato simbolico e il rappresentarlo lo svela. Le sue immagini sono concetti: l’ostacolo imprevisto, il desiderio di comunicare, la voglia di colpire, il bisogno di fuggire, il balenare del passato, la sacralità di un gesto perfetto, il timore delle passioni, la necessità di sapersi controllare, la curiosità verso l’altro, il rifugiarsi nel proprio piccolo universo. I concetti diventano figure, forme su cui poi l’artista ritorna trattandole come materia. Prima crea, poi trasforma: non racconta storie di uomini ma l’umanità stessa, che cerca un significato nella propria, quotidiana, esistenza.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports