Abbiamo conosciuto l’artista persiano Navid Azimi Sajadi per “Oriente e Occidente” a Monreale e con Emmereports siamo andati alla scoperta del suo universo simbolico. Adesso, con la mostra Allegorical States curata da Evolve, espone nelle sale del nuovo centro di arte contemporanea Foundry a Dubai e intervistiamo il Maestro perché ci aiuti a comprendere quanto l’arte non sia solo un prodotto o un’espressione, ma soprattutto ricerca, introspezione, filosofia. L’arte è una realtà che può essere molto diversa dalle nostre categorie mentali e, che in terre di confine come la Sicilia crocevia di millenari scambi e contaminazioni, deve essere compresa e vissuta guardando alle radici; questo sguardo ci svelerà improvvisamente di appartenere a mondi molto più remoti di quanto avremmo mai potuto immaginare.
Lei si sente un camminatore in una moderna via della seta?
La via della seta è un fenomeno inventato nell’Ottocento, è un termine romanzesco e adesso turistico, che non appartiene all’archeologia o alla storia. Ma le strade e collegamenti tra le civiltà esistevano già da millenni e la globalizzazione non è assolutamente un fenomeno nuovo. La storia è un susseguirsi di scambi, confronti e contaminazioni: questa realtà mi appartiene perché io viaggio tanto per i miei progetti e ho vissuto in realtà molto diverse. Io sono un osservatore e cerco sempre di cogliere diversità e similitudini fra vari popoli e culture. Sono particolarmente affascinato dalla cultura visiva e presto molta attenzione ai simboli e ai miti, perché sono il collante che mantiene unita una società.
Lavorando sui simboli lei riflette su un loro significato attuale o sulle culture dei popoli che li hanno creati?
Per me significa riflettere su entrambi gli aspetti: un simbolo in sé non esiste e non lo si può interpretare se non riferendolo alla cultura che lo ha prodotto. Cerco di comprenderne l’attuale funzione nella società e nelle culture che li adottano e che attribuiscono loro il significato. Quando riproduco un simbolo cerco di far vedere come, dove e in quale funzione questo viva nella società contemporanea.
Crede che possano esistere simboli universali interpretati in maniera univoca?
Alcuni simboli, che riguardano figure generali e fondamentali della vita come quello della madre, al primo impatto e in una prima superficiale lettura possono essere univoci. Basta però fare un solo un passo spingendosi più in profondità nella lettura e tutto improvvisamente cambia. Perciò no, non credo possano esistere interpretazioni univoche; tutto questo ci porta nell’affascinante labirinto della semiotica.
Il suo lavoro, ponte fra mondi culturali differenti, ci invita ad abbattere barriere e nazionalismi?
Si e no, nel senso che non credo molto alle barriere: il nazionalismo è un fenomeno politico abbastanza recente nella forma in cui lo conosciamo e lo percepiamo ora. Cerco invece di far vedere che ogni epoca e periodo della civiltà umana ha segnali e caratteristiche più o meno simili. Nell’odierno mondo globalizzato tra le entità geografiche non ve n’è una che possa definirsi «nazione», che abbia cioè al suo interno una sola identità omogenea sotto il profilo culturale. Credo inoltre che la barriera del tempo non esista: con il mio lavoro cerco di far capire allo spettatore che può liberamente scivolare e giocare tra la mia visione e la sua interpretazione. La realtà è come il nastro di Möbius, la si può percorrere all’infinito, senza spigoli, barriere, contrapposizioni.
Come definirebbe la parola arte?
L’arte, per il significato che comunemente si dà a questa parola, è un’invenzione europea di poco posteriore al periodo barocco; nella mia lingua e nelle culture iraniche, invece, questo significato non esisteva. C’erano mestieri come il pittore lo scultore e il calligrafo … ma la parola che usiamo in Iran come arte è Honar, che esprime lo stato del sublime e della saggezza, la conoscenza interiore. Honar non ha niente a che fare con il mestiere dell’artista, che può essere semplicemente un tecnico. Per me è un cammino interiore, che non deve essere definito e non va schematizzata altrimenti perde la sua vivacità e vitalità: solo se avessi avere smarrito la creatività potrei definire e spiegare l’arte.
Cosa racconta con le sue opere?
Soprattutto me stesso, il mio percorso, quello che ho vissuto e provato. Mi sembra di poterlo definire come un racconto polifonico, vissuto da vari Navid che esistono dentro di me, da quello che hanno vissuto, dai loro svariati interessi. È una navigazione trascendentale, un viaggio per incontrare me stesso. Il mio racconto ha una struttura fortemente metaforica, che deriva dalla mia lingua madre: il persiano. Questa lingua ha plasmato e costruito il mio labirinto mentale, i miei schemi di comprensione della realtà.
È una lingua fatta di metafore e allegorie, ha influenzato profondamente la mia sensibilità più intima. Secondo me ogni artista con vari mezzi e linguaggi si racconta e raffigura il proprio autoritratto; questo è il bisogno fondamentale di condividere con gli altri e documentare ciò che l’artista ha percepito nel proprio percorso esistenziale: per questo motivo l’arte aveva inizialmente una funzione rituale. Il mio è un racconto parallelo che poi si intreccia: rappresenta due culture simili e allo stesso tempo distanti, come rami di uno stesso albero cresciuti in direzioni opposte.
La geografia metaforica nella quale sono collocati gli elementi che compongono le opere fa da scenografia ad una narrazione sospesa tra antico e moderno. Nelle mie opere si incontrano simboli di guerra, di imperi che crollano, di mutilazioni culturali, di contemporanea barbarie ma anche, allo stesso tempo, simboli di rinascita, di difesa della memoria, di sopravvivenza e addirittura di gioco e di gioia. C’è la danza delle emozioni, un vortice di impulsi contrastanti che oscillano tra bene e male, oscurità e illuminazione, gioia e dolore. La consapevolezza che l’individuo è padrone del proprio destino ma deve lottare per affermarlo, nell’eterna danza tra immanenza e trascendenza. Queste opere sono il manifesto della convivenza pacifica di due culture che trovano nella diversità di stile un linguaggio comune, capace di parlare a ciascun individuo.
Può accennare ad alcune delle sue opere che meglio la identificano?
La maggior parte delle mie opere sono installazioni site specific, ritengo che alcune mi definiscano molto bene: le installazioni attualmente nel monastero benedettino di Monreale, per l’evento Oriente e Occidente, il progetto Eisegesis che ho presentato alla fondazione Pejman di Teheran e anche l’opera “Serafini della tortura” che si trova nella mostra permanente al Getty Museum di Los Angeles
Perché si sente particolarmente legato alla Sicilia?
Provo un grande amore per quest’isola, nato già dalla mia prima visita nel 2006; poi pian piano ho cominciato a scoprirla trovandola particolarmente stimolante. È così piena di risorse storiche e visive, una straordinaria stratificazione che devi sfogliare e la scopri sempre più. Per tanti anni, ogni estate, vi trascorrevo un paio di settimane visitando musei e siti archeologici, e aggiungevo idee, fotografie e disegni al mio bagaglio culturale e visivo. Due cose in particolare mi hanno colpito: la luce e la qualità dei colori, poi la somiglianza nei cromatismi delle ceramiche e mille altre influenze arabe ancora vive nel territorio. Era il mio sogno scoprire un luogo che tanto somigli ai luoghi delle mie origini pur presentandosi in maniera completamente diversa. Devo dire che la Sicilia è altro anche rispetto all’Italia, è una terra che cattura invogliandoti a rimanervi per sempre, come fu Calipso per Odisseo.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports