Nel precedente articolo abbiamo parlato della teoria del figlio di Giacomo Matteotti, Gianmatteo, secondo la quale ad uccidere il padre non era stato Benito Mussolini, che voleva invece una coalizione di governo col PSI.
Abbiamo visto come Gianmatteo, a sostegno della sua tesi, abbia utilizzato fonti e storici estremamente validi come Renzo De Felice, Pietro Nenni, alcuni articoli de L’Avanti e le testimonianze dei deputati socialisti Giunta e Silvestri e del giornalista e storico Giorgio Spini.
Oggi, partendo da quest’ultimo, presenteremo la lettera di risposta a Giancarlo Fusco inviata a “La Stampa” nel 1978 e leggeremo anche i pareri dello storico Giuseppe Rossini, già autore del libro “Il delitto Matteotti fra il Viminale e l’Aventino” pubblicato nel 1966 (Il Mulino Editore) e del giornalista storico Franco Scalzo, autore del libro “Matteotti, L’altra verità” (Savelli editore).
Parto da Giorgio Spini e dalla sua lettera:
Sulla Stampa dello scorso 2 gennaio (1978, n.d.r.) Giancarlo Fusco ha rivelato le confidenze intorno al delitto Matteotti fatte da Aimone di Savoia ad un gruppo di suoi ufficiali nell’autunno del 1942. Secondo queste confidenze, Matteotti era entrato in possesso di documenti i quali provavano che Vittorio Emanuele III aveva fatto un losco patto con una compagnia petrolifera straniera: “La potentissima Sinclair Oil, affiliata alla Anglo Persian Oil, la futura British Petroleum”. La Sinclair aveva fatto entrare il re tra i suoi azionisti gratuitamente: in cambio il sovrano si era impegnato ad esercitare la propria autorità per impedire che venissero sfruttati i giacimenti petroliferi in Libia.
Dopo il discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio 1924, in cui il deputato socialista aveva denunciato i crimini commessi dai fascisti durante le elezioni di quell’anno, Mussolini aveva ordinato alla banda Dumini di aggredirlo: però avrebbe dovuto trattarsi di una delle solite manganellature soltanto. Invece, giusto allora, Emilio De Bono venne a sapere, in qualità di capo della polizia, che Matteotti era in possesso di questi documenti compromettenti per il re e che li portava sempre con sé in una borsa. De Bono volò da Vittorio Emanuele III a raccontargli la cosa e i due si accordarono sulla necessità di sopprimere addirittura Matteotti, anziché bastonarlo soltanto, e di asportare dalla sua borsa i famigerati documenti. L’8 giugno 1924 De Bono convinse Dumini ad eseguire tutto ciò, mediante una somma di denaro, e due giorni dopo Matteotti fu rapito ed assassinato. Né si sentì più parlare dei documenti riguardanti il patto fra il re e la Sinclair.
Giancarlo Fusco conclude il suo articolo dicendo di non sapere fino a che punto questo racconto del Duca di Aosta possa essere un’alternativa attendibile alla versione “storica” dei fatti. Neppure io lo so: e non pretendo di aggiungere altre rivelazioni a quella di Fusco. Ma posso almeno indicare chi era il petroliere Sinclair perché lo sa chiunque abbia letto un manuale di storia americana. Era uno dei protagonisti del leggendario affare del Tea Pot Dome, cioè uno dei più clamorosi scandali dell’America del primo novecento.
Nel 1921, il segretario agli Interni dell’amministrazione repubblicana Harding, Albert G. Fall, concesse con procedura del tutto irregolare alla Mammoth Oil Co., di cui era presidente H. F. Sinclair e ad altre compagnie, lo sfruttamento di alcuni giacimenti petroliferi, tra cui uno nel Wyoming chiamato Tea Pot Dome, che invece avrebbero dovuto restare a disposizione della marina americana per eventuali esigenze belliche. La cosa si riseppe e venne usata dai democratici per montare una clamorosa campagna contro l’amministrazione Herding. Fall fu processato sotto l’accusa di essersi fatto corrompere e finì in galera. Altre complicate vertenze giudiziarie seguirono, fra cui un processo per corruzione nel 1928 contro Sinclair, da cui il petroliere uscì assolto benché la stampa sostenesse a gran voce la sua colpevolezza.
L’affare Sinclair ed i suoi strascichi giudiziari si chiusero infine nel 1932, ma restano ancora oggi proverbiali in America come esempio di losca connessione tra affaristi e politicanti. Dunque, laddove Aimone di Savoia parlava della Sinclair come di una compagnia inglese connessa con l’Anglo Persian Oil, si trattava in realtà di un magnate americano del petrolio già avvezzo a combinarne delle belle con personaggi politicamente altolocati.
Forse è inesatto altresì che si trattasse di impedire lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Libia. Come vedremo fra un momento, H. F. Sinclair voleva ottenere l’esclusiva per la ricerca del petrolio sul territorio stesso dell’Italia a favore della Standard Oil. Fusco ne è stato il primo – per quanto almeno ne so – a fare il nome di Vittorio Emanuele III in connessione con quello di Sinclair. Ma già al tempo dell’affare Matteotti qualcosa trapelò di questo intrigo, sia pure senza che si parlasse mai di sua maestà il re.
A quel tempo, infatti, una parte della stampa, cioè quella filofascista, mise in circolazione la voce che Matteotti era stato ucciso non già per colpa di Mussolini, ma per impedirgli di rivelare gli affari sporchi in cui erano coinvolti Finzi, Filippelli e la banda che ruotava intorno al Corriere Italiano. E fra l’altro fu detto che costoro erano stati pagati da H. F. Sinclair per ottenere quella esclusiva alla Standard Oil delle ricerche petrolifere in Italia, cui sopra si è accennato.
Fra gli altri nomi che vennero fatti, v’era quello dell’Onorevole Guido Jung. Jung era stato in America nel 1922, come esperto finanziario dell’ambasciata italiana a Washington: poteva dunque avere conosciuto Sinclair colà. Nel 1924 era stato eletto deputato nel “listone” fascista; e fu poi denunciato durante l’affare Matteotti, come complice dell’intrallazzo Sinclair. Può essere interessante ricordare che per l’appunto un periodico filo-fascista di New York, Il Carroccio, diretto dall’italo-americano De Biase, fu particolarmente violento nell’accusare Jung e la Sinclair di essere i veri colpevoli dell’uccisione del leader socialista. Tuttavia Jung superò questo incidente senza danni: tanto è vero che fece poi una bellissima carriera, prima come sperto del governo fascista in varie trattative con banche degli Stati Uniti e poi come ministro delle Finanze.
La stampa antifascista respinse le dicerie sull’affare Sinclair considerandole come un’espediente per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle responsabilità di Mussolini e dalla reale natura politica del delitto. Anche gli storici che si sono occupati dell’affare Matteotti sono stati indotti da ciò a trascurare questo episodio.
Solo Giuseppe Rossini, nel suo libro Il delitto Matteotti tra il Viminale e l’Aventino, ne dice qualcosa. Anche egli, però, come Aimone di Savoia, mostra di non sapere chi fosse con precisione Sinclair. Questo atteggiamento si spiega bene col fatto che nessuno, fino all’articolo di Fusco sulla Stampa, aveva mai subdorato che lo stesso Vittorio Emanuele III potesse avere tenuto il sacco a Sinclair. Ma dopo l’articolo di Fusco, viene da chiedersi se la stampa filo-fascista, tirando fuori il nome di Sinclair, non lo facesse proprio per minacciare il re di vuotare il sacco, qualora sua maestà non avesse sostenuto fino in fondo Mussolini.
Un altro nome che venne fuori in connessione con l’affare Sinclair fu quello di un giornalista avvezzo ad avere mano in ogni specie di pasticci: Filippo Naldi. Oltre ad essere stato il direttore del Resto del Carlino, Naldi era stato uno dei padrini del mussoliniano Popolo d’Italia. Al tempo dell’affare Matteotti stava continuando a fare intrallazzi giornalistici: aveva fondato un giornale – Il Tempo – ed aveva comprato da Filippelli il pacchetto di azioni del Corriere Italiano. Fu detto anche che aveva altresì lavorato per conto di Sinclair onde chiudere la bocca ai giornalisti sull’affare dell’esclusiva delle ricerche petrolifere a favore della Standard Oil. Come si sa fu accusato di avere celato il famoso memoriale Filippelli e fu arrestato per questo. Ma fu presto liberato e sparì dalla circolazione. L’affare Sinclair venne investigato durante l’istruttoria giudiziaria sull’assassinio di Matteotti, ma senza risultati. Il giudice istruttore giunse alla conclusione che la concessione petrolifera era nell’interesse di un gruppo finanziario antagonistico a quello del Corriere Italiano. E tutto cadde nell’oblio.
Vorrei però aggiungere un curioso codicillo a questa storia. Nell’autunno 1943, quando Vittorio Emanuele III scappò a Brindisi insieme con Badoglio, ricomparve al suo fianco Filippo Naldi, in veste di Ninfa Egeria politica. E chi ha voglia di avere ulteriori particolari, può trovarli nel libro del compianto Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud. Il re e Badoglio erano nei guai perché avevano bisogno di mostrare agli Alleati di avere un qualche supporto politico, laddove i partiti del c.l.n. rifiutavano di avere a che fare con loro. Avevano inoltre bisogno di mettere insieme un governo purchessia, avendo lasciato a Roma i loro ministri al momento della fuga. Naldi li cavò da queste difficoltà, mettendo insieme un finto partito, formato di avanzi del vecchio trasformismo meridionale, sotto il nome di Partito Democratico Liberale, ed aiutandoli a formare su tale base un ministero.
Questo ministero “liberal-democratico” era composto di personaggi talmente oscuri che non si osò dare loro il titolo di ministri; e quindi ebbero solo quello di sotto-segretari. Ma uno almeno di loro aveva un nome ben noto: Guido Jung. In quanto ebreo era stato cacciato dal governo nel 1938 e quindi poté tornare a galla nella seducente veste di vittima del fascismo.
Non so se Naldi e Jung abbiano avuto altri rapporti con petrolieri dopo l’affare Matteotti. Ignoro altresì in che modo essi abbiano potuto ricomparire a fianco di Vittorio Emanuele III dopo l’8 settembre. So però che a quel tempo, nell’Italia meridionale, non si muoveva una foglia senza il permesso degli alleati. Non mi meraviglierei se in qualche archivio britannico od americano esistesse una pratica “top secret” intitolata a loro.
Come Fusco, sono anch’io ben lontano dall’affermare che la vera causa del delitto Matteotti vada cercata in questo pasticcio maleodorante di petrolio. Penso però che si debba riconoscere a Fusco ed alla Stampa il merito di avere ricordato agli storici una pista finora trascurata, sulla quale varrebbe invece la pena di fare qualche altra ricerca.
Giorgio Spini
Adesso riporto il parere di Giuseppe Rossini:
Se da un lato non penso di trarne conclusioni diverse dal passato sulle responsabilità dirette di Mussolini nell’evento del giugno 1924, non ho elementi nuovi per modificare la valutazione che detti del ruolo svolto dall’ambiente affaristico del fascismo.
Il cosiddetto momento affaristico del governo Mussolini, per comune ammissione dei testimoni (alcuni dei quali, quando completai la mia ricerca, erano ancora vivi, ne parlai con Cesarino Rossi), pare debba essere ricondotto all’interno del gruppo Finzi, interessato alla vicenda petrolifera. Si parlò infatti di una attenzione tutta particolare di Filippelli e di Naldi che di quel gruppo erano l’ala più intraprendente. In una nota della direzione generale della PS, del 14 giugno, si leggono una serie di informazioni tratte da un colloquio con un non meglio precisata “personalità liberale”. Di sicuro si può dire che Naldi organizzò il silenzio giornalistico sull’affare Sinclair che, invece, fu approfondito nei suoi possibili risvolti giudiziari durante il processo di Chieti.
Matteo Matteotti cita (facendo riferimento allo storico De Felice) un primo documento “riservatissimo” diretto a De Bono senza data: tale documento, che anch’io avevo citato nel mio volume, porta la data del 14 giugno e se ne ricava una sola notizia: che Turati fosse la persona in grado di possedere una parte della documentazione, di cui disponeva Matteotti in merito alla Sinclair. Gli studiosi sono informati del viaggio a Londra di Matteotti: invece, non ho mai saputo alcunché della scrittura privata che consentirebbe di liberare Vittorio Emanuele III, socio della Anglo-Persian-Oil e quindi interessato alla scomparsa di certi documenti. Questa responsabilità diretta del re potrà consolidarsi solo se una ricognizione negli archivi inglesi darà dei frutti, che al presente non sono in grado di prevedere: bisognerebbe bene capire perché la Sinclair aveva difficoltà ad agire sul mercato italiano, questa Sinclair che, in fondo, era “una staffetta indipendente” nella lotta tra le compagnie petrolifere.
Le indicazioni di Giancarlo Fusco, le lettere di Giorgio Spini ed il saggio di Pizzigallo sulla politica petrolifera tendono ad approfondire questa controversa interpretazione, ma non ci forniscono una risposta definitiva. Per cui resta ancora in piedi l’interpretazione storiografica corrente che, per ragioni diverse, i fascisti e gli antifascisti ortodossi accreditano: il movente politico e null’altro.
Giuseppe Rossini
Per concludere con l’intervista a Franco Scalzo:
Nel suo libro Matteotti, l’altra verità lei sostiene una tesi totalmente opposta a quella della storiografia ufficiale. Qual è, in sostanza, questa diversa verità?
Lo svolgimento della vicenda passa attraverso due nodi fondamentali. L’origine del delitto (più affaristica che politica) ed i mandanti della Ceka che con la soppressione di Matteotti si prefiggono un duplice obiettivo: eliminare un testimone scomodo e costringere Mussolini a gettare la spugna. L’operazione riesce solo a metà, come tutti sanno.
Com’è arrivato a questa conclusione clamorosa? Come ha impostato la sua tesi?
Semplicemente, servendomi delle tessere di cui sono entrato in possesso nel corso della mia ricerca e poi sistemandole secondo un ordine che non fosse condizionato e dominato da posizioni preconcette. Alla base di questo complesso gioco ad incastro ci sono stati, comunque, due interrogativi. Primo: che interesse poteva avere Mussolini a macchiare la propria reputazione con un delitto infame dopo appena due mesi dall’apoteosi elettorale del Pnf? Secondo: perché proprio Matteotti, quando tutti i partiti dell’opposizione avevano manifestato il sospetto che il successo dei fascisti fosse dipeso, almeno in parte, da brogli e dalla violenza squadristica? Una volta preso atto della legittimità di tali domande, la distanza dalle risposte si accorcia sensibilmente, e la si può riempire soltanto ricorrendo a materiale di prima mano. Immune cioè sia dalla propaganda che dalle distorsioni ideologiche. Ma in questo spazio si è, appunto, inserita la lunga sequenza di documenti che provano diverse cose: che Matteotti fu ucciso per impedire che facesse rivelazioni. Rivelazioni sul coinvolgimento di alcuni ambienti (legati alla Banca Commerciale) in certi loschi affari riguardanti i petroli, il gioco d’azzardo ed il traffico d’armi; che gli ispiratori e gli esecutori del delitto erano già da diverso tempo in rotta di collisione coi vertici del Pnf, sebbene si fossero infiltrati nell’entourage di Mussolini; che l’immobilismo statuario dell’Aventino era un atteggiamento indotto dalla paura delle opposizioni di dover rendere conto al Pese degli appoggi forniti, da dietro le quinte, all’ala revisionista del partito fascista, che è poi quella nel cui seno matura la decisione di fare fuori Matteotti; che i processi del ’25 e del ’47 sono stati poco meno o poco più che delle orribili farse…
Parrebbe di capire che il delitto Matteotti non era compiuto da, ma contro Mussolini…
Proprio così. Mussolini si assume, per intero, la responsabilità del crimine perché, altrimenti, sarebbe costretto a denunciare quella del gotha finanziario che ha foraggiato la marcia su Roma e che dopo avergli dato il potere minaccia di riprenderselo per trasferirlo a gente più maneggevole se lui non si rassegna a fungere da parafulmine e da capro espiatorio. E’ una partita difficile, giocare sul filo del bluff, che finisce in pareggio. Mussolini resta al suo posto, ma deve rinunciare al progetto di disfarsi di certe regole, di certi condizionamenti. Li subisce fino a Salò dove vuota il sacco col giornalista Silvestri, ma è troppo tardi, ormai, per ristabilire la verità. Le forze alle quali avevano fatto capo gli istigatori della Ceka sopravvivono al 25 luglio, come sopravvivranno, più tardi, alla caduta del regime monarchico. Nel ’47, in riferimento al caso Matteotti la situazione non è molto dissimile da quella del ’25, e questo spiega il carattere aleatorio del processo conclusivo di Roma: un atto dovuto, un rito.
Che differenza c’è fra la sua tesi e quella avanzata da Matteo Matteotti?
Lui esclude che la massoneria abbia avuto un ruolo nel predisporre il piano dell’11 giugno, e non so da che tragga questo convincimento, visto che tutti gli indiziati del delitto (da Naldi a De Bono, a Dumini, a Bazi, a Rossi, a Finzi) erano iscritti, a vario titolo, alla setta. Lui afferma che è il mandante di Mussolini, ed io no. Lui dice che il duce copriva le responsabilità della corona ed io trovo strano che Mussolini a Salò non abbia colto l’opportunità per convogliare in questa direzione almeno una parte delle colpe che si era addossato fino alla giubilazione del luglio ’43. Lui insiste sulla Sinclair (mentre risulta dai documenti della compagnia petrolifera americana con cui avevano brigato i manutengoli della “Commerciale”) che era la Standard Oil, e che tale società era anche fortemente interessata al business delle bische.
Perché, secondo lei, per tanto tempo a nessuno o quasi è venuto in mente di indagare più a fondo su questo capitolo di storia?
Sono incline a ritenere che una certa classe politica e certi settori della cultura italiana preferiscano soprassedere. La demonizzazione acritica del fascismo ha fatto leva soprattutto sul falso scenario del delitto Matteotti: ora tornare indietro con la moviola, ritrattare, ricredersi costituisce una fatica improba per chi, a mio giudizio, si è immesso, più o meno in buona fede, sulla direttrice sbagliata.
Per concludere questo ciclo su “l’altra” tesi del caso Matteotti, abbiamo visto molti pareri e nonostante qualche differenza, in realtà sembrano tutti coincidere con la tesi di Gianmatteo Matteotti.
Senza dubbio resta soltanto una tesi e, fino a quando non salteranno fuori le proverbiali carte sottratte a Giacomo Matteotti ma, tutto si può dire meno che non sia solida.
Sono tutti pareri in cui vengono riportati nomi, cognomi e fatti storici; oltre ad articoli e libri consultabili e quindi verificabili.
Pareri che portano ad escludere ad un omicidio voluto da un “adirato” Benito Mussolini a causa delle accuse ricevute da Matteotti nel celebre discorso alla Camere del 30 maggio 1924.
Per avere un’idea più completa, consiglio il precedente articolo.
Pur restando una semplice tesi quella del figlio di Matteotti, conosciuto come Matteo, bisogna dire che non sia il solo a scagionare Mussolini dalla responsabilità dell’omicidio del padre e soprattutto, sembra non essere stato il solo ad avere un’idea chiara di chi possa essere stato l’assassino.
di Vittorio Emanuele Miranda – EmmeReports