One Voice Palermo, a Palazzo Sant’Elia ‘Tokonoma’ dell’artista Andrea Kantos, una riflessione globale che prende spunto dall’architettura d’interni giapponese.
La sua opera sembra promanare dal vuoto della nicchia; c’è una connessione con l’Oriente in questo elemento architettonico?
No, il Tokonoma è una nicchia all’interno della Washitsu, una stanza composta di tatami e la nicchia del Tokonoma ospita alcune composizioni specifiche; la nicchia centrale settecentesca di Palazzo Sant’Elia, invece, non ha una pertinenza orientale. Semmai la collocazione è una scelta estetica specifica legata alla logica dell’allestimento; lo sfondo della scalinata ha un assetto trionfale che si fa forte di un atrio decorativamente ricco e abbellito da vasi.
La collocazione centrale del mio lavoro doveva sottrarsi a questo confronto, diventare invisibile relativamente alla panoramica dello spazio, circoscrivendo una forma da fruire da vicino. Se vogliamo rintracciare un elemento site-specific della progettazione occorre invece vedere come i tatami di vetro siano disposti su due livelli, come a proseguire la rampa della scala, così come gli elementi del Tokonoma riflettono alcune geometrie degli intagli marmorei.
Da questo centro emozionale si sviluppa così la rilettura di una stanza fondamentale nella cultura giapponese. Può spiegarla?
Nel contesto del progetto uno degli elementi compositivi maggiormente presenti era quello di rispecchiare, trasgredire ma a sua volta sublimare il modello tradizionale da cui sono partito. Quindi i tatami sono presenti a livello di composizione, ma altresì sprovvisti del materiale che gli è proprio, raffigurato su un blocco cartaceo collocato all’estrema sinistra, in diversi multipli. Il Tokonoma tradizionale contiene alcune composizioni floreali e rupestri, spesso una coppia che dialoga col Kakemono centrale. Gli elementi del Tokonoma sono disposti evitando ripetizioni e multipli nello spirito di una naturale asimmetria.
Nel Kakemono vi sono testi o illustrazioni che invitano alla riflessione ma prima ancora la lettura è un fatto di disposizione spaziale. Ho sostituito testi e illustrazioni con due fotografie, una a bassa risoluzione, una foto lunga e verticale che ha come soggetto metà della nicchia settecentesca e taglia in due lo spazio. Una foto della nicchia nella nicchia, con un inciso sui multipli che trova anche una sua dimensione degli elementi orizzontali, tatami inclusi.
Lì dove normalmente viene posta una piccola scultura rupestre o una piccola composizione vegetale, ho inserito una roccia vulcanica e la sua rappresentazione fotografica ad alta risoluzione, incastonata in una teca e in misure che ricalcano perfettamente l’incastro marmoreo a contrasto. La composizione vegetale è stata sostituita da un laterizio da cui si sviluppa una ferula essiccata, che col suo colore bruno sembra essere un tutt’uno con il blocco di cotto.
Le immagini che scorrono continuamente nascono e riflettono una diversa concezione del vivere e dell’abitare. Che opere sono?
Invece del Ro per la cerimonia del tè ho allestito un monitor in cui ho realizzato un ready-made dell’opening di The Tatami Galaxy, un’opera di Masaaki Yuasa che usa l’immagine del tatami per riflettere dimensioni di coazione, bias cognitivi, e che si rivela negli ultimi episodi un prodigioso meccanismo metafisico.
Ho trovato questo opening eccellente e delizioso, la sua forma originale però già abbastanza completa poteva confondere uno sguardo disattento, così l’ho post-prodotto diminuendone la velocità e alterandone i colori. Sia la versione originale che quella che ho realizzato per Tokonoma vedono una serie di composizioni di tatami strutturare molteplici ambienti, come se fossero dei frattali. Sicuramente ho una grande ammirazione per l’architettura, così come molti nomi illustri dell’architettura hanno guardato ad Oriente e in particolare in Giappone, come luogo di grande riflessione compositiva.
L’abitare riflette dimensioni di natura intima così come riflessioni su scala politica, economica, sociale e filosofica. Partendo proprio da quest’ultima direzione che trova in Heidegger alcune riflessioni interessanti, oltre al rapporto costruire per abitare e abitare per poter costruire, v’è un garbo, una sottrazione, una riduzione e una semplificazione che fanno un tutt’uno con un piano d’azione e di ragionamento. Però non voglio soltanto coltivare l’ammirazione, ma anche una valutazione critica, e ovviamente in Giappone vi è un’idea di spazio vitale che in molti aspetti può assumere connotazioni assai inquietanti e lontane dall’architettura tradizionale.
I piani trasparenti non rappresentano, ma evocano e svelano archetipi. Quali legami possiamo trovare nella sua opera con l’arte di Merz?
Mario Merz parte da una formalizzazione la cui cifra stilistica o meglio ancora il suo modulo principale, è molto distante da quella che io ho usato confrontandomi con elementi dell’architettura tradizionale giapponese: il tatami. Lo sguardo antropologico di Mario Merz moltiplica l’archetipo della cupola come modulo abitativo tribale che raccoglie il nucleo familiare ma si apre anche all’esterno, come luogo di condivisione comunitaria.
L’essenza della Washitsu riflette qualcosa di simile ma con una misura più intima e sottile: la Washitsu è un luogo di accoglienza composto da un numero circoscritto di tatami che ne definiscono l’ampiezza e che contiene al suo interno lo slargo sopraelevato del Tokonoma, uno spazio chiuso e archetipale che si apre alle forme della natura tramite composizioni e frasi con una forte carica spirituale, di equilibrio e armonia in esso disposte. L’impiego del vetro nelle abitazioni è stato una rivoluzione enorme, sia dal punto di vista pratico, ma anche di ordine estetico, perché lì dove c’è la luce si rivela lo spazio.
Il vetro ancora oggi può rappresentare alcune direzioni spirituali ma anche essere un incipit per l’utopia, dove le cose sono sospese, dove interno ed esterno vengono sciolti e dove la materia prima del vetro si slarga dal suo essere anfratto fino a una protezione omnicomprensiva e invisibile. Sempre dagli schermi non solo passa quasi tutto il flusso digitale ma ben presto, tramite la realtà aumentata, la post-produzione del luogo si aprirà su infiniti piani espressivi che già l’opera di Merz può indicare proprio nell’uso di materiali eterogenei compresi testi e numeri.
La prima edizione di Tokonoma vedeva dei testi di Gusty Herrigel, Emanuele Coccia e Vladimir Ivanovič Vernadskij sospesi su blocchi di plexiglass. C’è un segreto connubio fra spazio e testo, spazio come luogo descritto e trascritto, con la possibilità evidente di essere letto o meno.
Come leggere la sua opera nel contesto di One Voice?
Prima citavo il ready-made dell’opening di Yuasa, perché il protagonista sembra racchiuso nei suoi bias cognitivi così come nella sua stanza, una condizione incrementata sia dagli strumenti e canali digitali che dalle misure preventive attivate durante la fase di lockdown. Io definisco la fase di lockdown e pandemia come due elementi distinti, convergenti per forza di causa ma separati nella loro essenza: la pandemia è qualcosa che rientra negli iper-oggetti, ovvero è una fase che vede in campo una quantità di altre fasi che fanno parte di un unico iper-oggetto.
La pandemia comprende ovviamente anche le nostre abitudini e il nostro rapporto con l’ambiente. Il lockdown invece è una forma di politica, di governance, che trova varie possibilità e interpretazioni di applicazione. Se la pandemia può far riflettere su come le cose siano connesse, il lockdown su come un sistema di welfare e il modello occidentale, una cultura capitalistica, siano estremamente fragili. Solo per fare un esempio, sono certo che nessun intellettuale abbia desiderato che la pandemia del covid facesse più vittime o incrementasse le aree di contagio, sono però sicuro che il lockdown sia stata una dimensione di possibili downshifting, oppure un punto di sospensione per sperare in modelli più virtuosi e attenti alla realtà.
Senza ombra di dubbio la fase di lockdown ha accelerato tanti processi, ad esempio modelli e opzioni di smart working, purtroppo molto meno di quanto sperato, creando oltretutto un impoverimento generale che ha trovato una politica lenta e distratta. Sotto questo punto di vista ho potuto raccogliere il rammarico generale di molti operatori culturali, che sono stati colpiti già nelle loro esigue economie.
Il vagar stanco e disordinato, coatto, illuso e sprovvisto di forza, mi sembra siano elementi che uniscono il protagonista dell’opera di Yuasa, così come il ‘protagonismo’ occidentale, dove questo termine indica una volontà di potenza e quindi di divenire e di morte, che sono uno degli elementi segreti di collasso e decadenza della contemporaneità.
One Voice Palermo, Palazzo Sant’Elia, Via Maqueda 81
Aperta fino al 30 settembre 2020
dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle 17.30. Ingresso libero.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports