Passeggiando per le vie del centro storico di Palermo non si può non restare ammaliati dalla bellezza degli edifici, testimonianza di stili architettonici lasciati in eredità dalle molteplici dominazioni che si sono susseguite nella nostra splendida città.
Luoghi che profumano non solo d’arte antica, ma delle fragranze dei cibi tradizionali, preparati nei locali tipici. Qui, fra tramestio di passi e chiacchiericcio indistinto che fa da sottofondo, emerge una figura particolare: “u sfinciunaru c’abbannia”.
Ovvero il venditore di sfincione che si sgola per invogliare i passanti ad acquistare una specialità che detiene il titolo indiscusso di primo street food palermitano. In bella mostra sul “Lapino a tre ruote” (l’Ape Piaggio), tranci odorosi di quella prelibatezza vengono presentati al grido di “Chi ciavuru! Fattu rà bella vieru, chi ciavuru! Scarsu r’uogghiu e chinu ri pruvulazzo” (che profumo! Fatto benissimo/ottimo, che profumo! Con poco olio e pieno di polvere).
È doveroso precisare che per “polvere” non si intende quella che si solleva dalla strada, bensì la generosa spruzzata di caciocavallo grattuggiato che ricopre ogni fetta. Lo sfincione ha un gusto davvero unico e accanto ai tranci più abbondanti troviamo anche la versione da “passeggio”, lo sfincionello, che si differenzia per dimensione e forma rispetto allo sfincione in quanto leggermente più piccolo e ovale, anzichè quadrato o rettangolare ed è meno salsato.
Venne ideato, a quanto sembra, nei primi del ‘900 da alcuni ambulanti di Porta Sant’Agata nel quartiere dell’Albergheria, dove si trova anche uno dei mercati storici della città: Ballarò. È necessario adesso fare un salto indietro nel tempo per scoprire l’origine dello sfincione, meritatamente inserito nella lista PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali). Così come per diversi piatti della gastronomia tipica regionale, anche in questo caso non mancano teorie e origini contese.
Alcune fonti fanno riferimento a una preparazione contadina considerata pane e companatico per via degli ingredienti che lo compongono, ma la versione più accreditata e antica della ricetta si fa risalire alle suore del Monastero di S. Vito, ubicato un tempo nei pressi di Porta Maqueda, demolita per consentire la costruzione del Teatro Massimo. Il Monastero venne in seguito acquisito dal Demanio Statale e trasformato in Caserma, oggi Caserma Giacinto Carini.
Nelle cucine di quell’antico Monastero le suore, costantemente alla ricerca di nuove preparazioni da proporre anche alla nobiltà palermitana, inventarono l’antenato dello sfincione che non prevedeva il pomodoro poiché introdotto successivamente e il condimento che ricopriva la soffice pasta, a metà fra quella del pane e quella della focaccia, era piuttosto ricco. Preparato con interiora di pollo, fegatini e budella saltati in padella con lo strutto, aggiunti gli aromi e pezzetti di caciocavallo, veniva steso sull’impasto e infine ricoperto da besciamella e piselli.
Prima di infornarlo ne spolverizzavano la superficie con granella di mandorle e pangrattato. Diversi gli ingredienti utilizzati, ma rimasta inalterata nel tempo la tradizione di gustarlo nel periodo delle feste natalizie. Il termine sfincione, secondo una delle ipotesi, deriverebbe dal greco spongos (in latino spongia), ciò probabilmente per la consistenza “spugnosa” dello sfincione.
Secondo un’altra, invece, dall’arabo “Isfang” (spugna) che però era una pastella dolce e non salata, forse l’antesignana della nostra “sfincia di San Giuseppe” che in dialetto viene chiamata “Spincia”, così come lo sfincione viene chiamato “Spinciune”.
Da sfincia a sfinciune (sfincia più grande) il passo è breve, mentre per “spincia e spinciune” una certa assonanza con spongia c’è, quindi chissà…! Una volta divulgata la ricetta, lo sfincione iniziò a comparire sulle tavole delle famiglie palermitane non solo durante le feste di Natale, ma anche in una particolare occasione chiamata “appuntamientu”, ossia la festa di fidanzamento che si teneva a casa della sposa.
La mamma della promessa preparava lo sfincione, considerato un piatto di buon auspicio. Con l’introduzione del pomodoro e probabilmente perché il ceto più povero non poteva permettersi la versione nata all’interno del Monastero, il condimento con cui ricoprire la pasta lievitata venne rielaborato. Quello che noi oggi conosciamo consiste in una salsa di pomodoro con cipolle, acciughe e origano, mentre l’unico ingrediente rimasto invariato è il caciocavallo. Non c’è vigilia dell’Immacolata o notte di San Silvestro che si rispetti senza lo sfincione, sovrano fra verdure pastellate, panettone e buccellato.
Nella mia famiglia ci riteniamo fortunati poiché mio padre, un pasticciere in pensione, ogni anno per le feste (e non solo) inebria il nostro olfatto con il “ciavuru” dello sfincione e delizia il nostro palato con questa specialità tutta siciliana. Ogni morso è uno sprofondare in una morbidezza spugnosa e mentre le papille gustative vanno in visibilio, congiungendosi con la salsa resa quasi granulosa dalla cipolla ben cotta, l’aroma dell’origano ci conduce all’interno di antiche masserizie che, immerse nelle assolate campagne siciliane, odorano di fieno e di tutti quei profumi intensi di cui è pregna l’aria di questa meravigliosa isola.
Il sapore forte e inconfondibile del caciocavallo, invece, ci riporta nei caseifici artigianali in cui il formaggio viene posto “a cavallo” di un’asta di legno. Il tutto è completato dalla mollica di pane che forma una croccantissima patina. Mollica (non pangrattato) ottenuta, come tradizione vuole, sfregando a mano quella delle “vastedde pi’ sfinciuna”, ovvero grandi forme di pane casareccio raffermo (3/4 giorni) la cui fragranza, ancora oggi, si diffonde per le vie dei piccoli paesi in cui il tempo sembra essersi fermato.
INGREDIENTI (4/5 persone)
Impasto
1 kg farina 00
50 g di zucchero
50 g di strutto
20 g lievito di birra
Acqua per impastare q.b.
Salsa
1 bottiglia di pomodoro
2/3 cipolle
5/6 acciughe
Origano q.b.
Mollica o pangrattato q.b.
100 g di caciocavallo
PREPARAZIONE
Sciogliere il lievito in acqua tiepida, aggiungere lo strutto, la farina, lo zucchero, il sale e impastare fino a ottenere un composto liscio ed elastico. Lasciare riposare per 30 min. Affettare e cuocere le cipolle. Assorbita l’acqua, aggiungere le acciughe, la salsa di pomodoro corretta con sale e zucchero, addensare e unire l’origano. Stendere la pasta dentro la teglia e coprire con il condimento e la mollica. Lasciare riposare per altri 30 min, infornare a 180° per 40 min ca. A cottura ultimata aggiungere il formaggio.
Buon appetito!
di Monica Militello Mirto – EmmeReports