In primis, va dedicato un pensiero ed una preghiera al giovane Willy Monteiro Duarte barbaramente ucciso a mani nude da dei delinquenti ai quali auspico la peggiore punizione possibile per l’efferato omicidio e porgo le più sentite condoglianze alla famiglia del giovane ventunenne.
Un’altra cosa triste è il fatto che si utilizzi gli identikit dei protagonisti della vicenda, appioppandogli una matrice ideologica in quanto grossi, tatuati e praticanti delle arti marziali miste (MMA).
Ancor più triste, è il fatto che letteralmente per delle mele marce, note nella loro zona per risse e precedenti per spaccio, si condannino le arti marziali, gli sport da combattimento e, più in particolare, le arti marziali miste.
Ed invece da condannare dovrebbero essere quegli esempi negativi che escono fuori dalle varie serie come Gomorra, Suburra e simili dove i protagonisti vivono nel mito della prevaricazione, del lusso ostentato, dell’esaltazione del proprio fisico, dei muscoli gonfi e della realizzazione personale tramite l’uso improprio ed egoistico della forza fisica.
E’ proprio questo il profilo che esce da alcune descrizioni di chi li conosceva, ed ha detto: “Si sentono gradassi, onnipotenti, hanno soldi e attività, hanno picchiato altre persone ma pochi o nessuno denunciano perché questo è un piccolo paese e sono tutti terrorizzati”.
Lo sciacallaggio mediatico, puntuale come un orologio svizzero capace di spaccare il secondo, non tarda a farsi sentire e qui di seguito, il direttore de “La Stampa” Massimo Giannini ha dichiarato in un tweet: “Ciao Willy, ragazzo coraggioso e generoso. Ma ora, puniti i due esaltati energumeni che lo hanno massacrato, vogliamo bandire certe discipline ‘marziali’ e chiudere le relative palestre?”.
Non sono mancate nemmeno le risposte dei campioni di varie discipline da combattimento, tra le quali, quella del campione Alessio Sakara, che ha indirettamente dato la miglior risposta al direttore della Stampa: «Le MMA non sono queste. Quelle sono mele marce. Le Arti Marziali Miste sono uno sport che fonda in dei valori e dei principi come il rispetto e l’onestà, impegno, sacrificio, umiltà, voglia di imparare, costanza e passione».
Nel suo post pubblicato su Instagram, lo sportivo ha aggiunto: «Continuerò la mia battaglia per cancellare dei cliché che riducono questo sport a un banale atto di violenza».
Non c’è da sorprendersi in ogni caso e non è la prima volta nella storia che si tenti di accostare gli sport da combattimento e chi le pratica alla criminalità.
Circa novant’anni fa, quando le arti marziali orientali non erano note al mondo occidentale e non vi erano ancora le MMA, la Kickboxing ed il Savate erano praticati soltanto all’interno dei pub francesi per dare spettacolo e permettere a chi la praticava di sbarcare il lunario.
Le intellighenzie dell’epoca si scagliarono ferocemente contro il pugilato, nominandolo uno sport bestiale, praticato quindi da bestie capaci di sopportare condizioni di lotta estreme non soltanto grazie all’allenamento, ma grazie ad un gene, che soltanto i delinquenti posseggono, e che gli permette di avere una resistenza che le persone perbene non potrebbero mai avere.
Sono tante le dichiarazioni in tal proposito, soprattutto dagli ambienti clericali, che pur essendo stati tra i primi promotori dello sport in Italia, hanno rifiutato la boxe dichiarandola amorale, accettandola soltanto nella seconda metà del XX° secolo.
Estremamente interessante, invece è il libro del giurista ed antropologo criminale Giuseppe del Vecchio “La criminalità negli sports”, scritto nel 1927, che spiega ed argomenta sul perché gli sport, ed il pugilato in particolare, sarebbero praticati da gente geneticamente predisposta alla delinquenza. Il “gene guerriero” di cui ci ha parlato Cesare Lombroso.
Qui di seguito, un passo del libro Del Vecchio:
“Una stretta analogia con i giuochi di puro divertimento dei criminali veri e propri. Costoro negli svaghi fisici portano una nota del tutto personale in ragione della loro inferiorità psichica e della loro ferocia e brutalità.
Insensibili anche fisicamente al dolore, il giuoco tipico dei selvaggi – a base di torture e sangue – ritorna nei criminali nella sua forma primitiva. Un boxeur, ad es., intriso di sangue e pesto di colpi dell’avversario continua a resistere e sfoggia ancora una difesa e un’offesa, incapace per un uomo normale, i competenti dicono che quello incassa bene; quando noi scorgiamo che ad onta delle lussazioni, delle slogature e delle fratture che uno sportista subisce, questi continua a prodursi nella gara o nella partita, nel match o nella contesa, non possiamo fare a meno di scorgere una insensibilità dolorifica che è ingenita e che non si può acquisire con l’abitudine.
Nella ferocia che bisogna spiegare in danno dell’avversario per carpire la vittoria. Lo sportista, con la pratica, si forma una seconda natura che si sovrappone alla prima, già brutale, e si comporta nella vita come se continuamente fosse sul ring. Avvalendosi poi della forza e del nome acquistato a prezzo di sangue attraverso cento battaglie, il boxeur è prepotente e sfrutta come meglio crede questa sua posizione fisica privilegiata.
Dal miraggio di un campionato mondiale o di una partita svolta a scopo di divertimento pubblico ed invade il gran mare della delinquenza solcato dall’odio, dall’ira e da tutti quei sentimenti covati in seno e fomentati dalla belva umana e che culminano con l’uccisione brutale del proprio simile”.
Per quanto io sostenga che la teoria del gene guerriero sia stata messa da parte con troppa facilità, di certo non possiamo accusare lo sport per la criminalità insita in certe persone. Perché se si vuol picchiare qualcuno, lo si fa anche se non si sono mai praticate discipline da combattimento.
A smontare questa teoria sono arrivati, per fortuna, dei grandi campioni che sono stati la testimonianza vivente della bontà e dell’altruismo all’interno dello sport e del pugilato.
Non possiamo non ricordare Primo Carnera che ad oggi è l’unico italiano nella storia ad essere stato campione mondiale dei pesi massimi di boxe e Nino Benvenuti, che ancora oggi, ad 82 anni, è un mito nella storia dello sport italiano e la cui generosità si esprime, ad esempio, nell’onorare sempre i grandi campioni, anche a costo di fare centinaia di chilometri, come per la scomparsa di Sandro Mazzinghi, campione mondiale dei pesi medi Junior, cantante e scrittore.
Non credo serva dire altro per smontare l’idea che gli sport da combattimento producano criminali.
di Vittorio Emanuele Miranda – EmmeReports