Era il 26 febbraio di quattro anni fa, la sera era fredda ma luminosa: c’era una luna in cielo che sembrava una notte d’estate…
Io e Cettina avevamo scelto “Le Antiche Mura“ di Mondello per festeggiare le nostre nozze d’oro: ci avevano colpito la bellezza discreta del locale, la sobria eleganza e la squisita cortesia del personale di sala.
Non sto a dilungarmi sull’emozione di vivere un evento come i cinquant’anni di matrimonio perché non ci sono parole, neanche per me che con le parole ci campo da una vita. Dico solo che la serata era appena iniziata e io ero già in trance, sognavo a occhi aperti, mi sembrava di essere tornato bambino, protagonista di una favola dei fratelli Grimm.
Non mi soffermo neanche nel descrivere la lunga “tavolata” di amici e parenti con i quali si era deciso di passare quella serata speciale: l’allegria si toccava con mano… E Tuttavia, nascosta in certi angolini quasi invisibili, occhieggiava anche la malinconia del tempo che passa, ti dà una carezza, magari ti abbraccia e bacia ma poi, implacabile, saluta e se ne va.
Come mi capita solo nelle situazioni d’emergenza, cioè di totale smarrimento emotivo, io, che di solito parlo all’infinito, quella sera tacevo.
Troppi pensieri, e non tutti gradevoli, si affollavano nella mia testa: dalla salute, che da tempo mostrava i primi segni del decadimento dovuto all’età (75 anni compiuti)… al Palermo, l’amore imperituro della mia vita, che languiva nelle ultime posizioni della classifica: un pensiero molesto, del tutto fuori luogo e fuori posto, che mi coglieva a tradimento e come un tarlo minacciava di rovinarmi la serata.
Più rassegnato che voglioso mi stavo apprestando a iniziare un discorsetto di routine del quale non sarei mai stato orgoglioso, quando, all’improvviso, come raggio di sole in una giornata buia e tempestosa, mi sfila davanti nientemeno che… Alessio Cracolici, team manager del Palermo. Mi vede così bello fresco e pettinato, spiana un sorriso e mi fa: “Benvenuto, che festeggiate?”.
E io, come non lo avessi neanche sentito: “ Tu che ci fai qui?”.
“C’è la squadra a cena, tutta, Zamparini compreso!”.
Non aveva finito di parlare che io lo tiro per un braccio e gli ingiungo: “Portami da loro!”.
Così, senza un cenno agli invitati della mia festa, mi dileguo seguendo Alessio. Che mi porta nella grande sala ricevimenti, due tavolate ciascuna il doppio della mia, da una parte giocatori e tecnici, dall’altra Zamparini dirigenti medici e accompagnatori.
Punto, bramoso, lo sguardo su quella dei giocatori e lo fisso direttamente sul capitano Stefano Sorrentino, seduto a capotavola: con un’occhiata a trecentosessanta gradi passo in rassegna tutto quel Palermo, dal primo titolare all’ultima riserva e mi sistemo accanto a Sorrentino. Che, gentile e premuroso come sempre perché lo è di natura, con un gesto ampio rivolto ai compagni mi presenta: “Ragazzi, questo signore è il giornalista Benvenuto Caminiti, giornalista che però preferisce essere indicato come il tifoso numero 1 del Palermo!”.
Poi disse altre cose carine sul mio conto ma io ero già stato rapito come una ventata rapisce e porta via con sé una foglia, dal vicino di posto di Sorrentino, ovvero Franco Vazquez. Mi fiondo su di lui, lo tiro su, lo abbraccio forte, poi gli metto entrambe le mani sulle spalle e quasi lo supplico: “Franco, ti prego, salvaci dalla serie B. Ho un’età, non potrei sopravvivere ad un’altra retrocessione!”.
Franco mi guarda con occhi straniti e arrossisce come un bambino, fa sì con la testa ma non gli esce neanche un sospiro dalla bocca. Il tutto in silenzio glaciale dell’intera tavolata dei giocatori. Sorrentino, da capitano vero, schioda la situazione di imbarazzo che avevo creato con la mia “sparata”, si alza e a voce tonante, declama: “Benvenuto è un istintivo e quindi dovete capirlo… Lui voleva dire tutti insieme, Franco compreso, dovremo salvare il Palermo se no lui se ne muore…”.
E finalmente sulle labbra esangue di Franco fiorisce un sorriso, lieve, quasi impercettibile ma fresco come una rosa: “Faremo di tutto.. Puoi contarci!”, e ricambia il mio abbraccio e – credetemi voi che sapete che significhi tifare – in quell’istante mi sentii traversato da un turbine di emozioni impossibili a dir con parole.
Ebbene, oggi che guardo la foto di Vazquez con la medaglia d’oro di campione d’Europa League al collo, mi sorge spontanea una domanda: “Ma tutto questo ben di Dio non potevamo godercelo noi che lo abbiamo tirato fuori dal Rayo Vallecano e fatto diventare il campione di oggi?”.
Malinconie da tempi orma morti e sepolti che non sono fatti per vecchi lamentosi e malati di nostalgia come me.
di Benvenuto Caminiti – EmmeReports