Cari lettori bentrovati.
Questa settimana la mia riflessione è dedicata alle famiglie dei soggetti autistici. Parliamo quasi sempre dei figli e poco dei genitori; per questo mi dedico a loro, mediante un analisi dei loro vissuti e delle implicazioni della disabilità del figlio nella loro vita. Storicamente la famiglia della persona con disabilità ha risentito in molti casi in primis della carenza di percorsi diagnostico-abilitativi corretti.
Identificazione del problema e conseguente “etichetta” funzionale a garantire un adeguato piano terapeutico, ad oggi, non si rivela un iter sempre lineare (in termini di tempistica e valutazione). Quando poi si arriva alla diagnosi, bisogna dunque accettare e darsi da fare. Sono queste due fasi che chiaramente non seguono percorsi e tempistiche lineari poiché abbiamo a che fare con la sofferenza inaspettata dei genitori.
La gestione pratica dei bambini che necessitano di strategie (suggerite dagli addetti ai lavori) richiede uno sforzo per le famiglie e da luogo a dei vissuti che inevitabilmente destabilizzano fortemente gli equilibri della coppia. Intanto l’attenzione esclusiva al figlio con disabilità catalizza e svuota pienamente le energie con conseguente delega in molti casi ai fratelli per la gestione e l’accudimento, con costi psicologici molto alti.
La ritualità rigida dell’autismo si trasmette all’intero nucleo familiare che comincia a vivere anch’esso in modo ritualizzato, rigido e abitudinario. In molti casi ci si rende conto che molti progressi non sono raggiunti per il bisogno di mantenere apparenti equilibri che in realtà invece ledono fortemente la qualità di vita della coppia e dell’intero nucleo familiare.
Uno degli esempi molto frequenti è quello di far dormire il bambino nel letto con la mamma mentre il padre si sposta in un’altra stanza. C’è’ dunque un livello che quindi si tende a trascurare per una questione di priorità data all’emergenza autismo. Questi sono i vissuti dei genitori che devono in tempi record prima accettare la diagnosi con tutte le sofferenze che questo comporta (rabbia, frustrazione, angoscia, depressione) stati d’animo che spesso non hanno spazi di elaborazione adeguati poiché ci si deve sbracciare e intervenire per aiutare i figli.
Le famiglie, se lasciate sole, possono percepire la disabilità come un masso che schiaccia qualunque azione, iniziativa o progetto. Ci si ritrova così invischiati in circoli viziosi che non permettono loro di affrontare le necessità quotidiane e il disagio psicologico è destinato ad aumentare (Micheli, 2007).
È noto ad oggi che la percentuale di divorzio nelle famiglie con disabilità è molto alta. In molti casi, nelle successive fasi di elaborazione ci si chiede di chi sia la colpa, cosa sia potuto succedere prima, chi ha determinato il problema (da un punto di vista genetico) e ci si incolpa vicendevolmente anche del fatto che magari uno dei due coniugi investe in modo totalizzante e l’altro assume invece una condotta di evitamento nei confronti del problema.
Il risultato è che la coppia perde così la propria identità e vigore fino all’inevitabile sfacelo. Cosa si può fare o come si dovrebbe intervenire?
Se nel progetto di vita la famiglia viene intesa come risorsa coinvolta nel progetto d’intervento è quindi necessario sostenere soprattutto i genitori come obiettivo primario dell’intervento quanto sforzarsi di migliorare l’intervento stesso verso la persona autistica; questo porta di conseguenza a una diminuzione dello stress genitoriali.
È importante dare alla coppia la possibilità di spazi individuali per recuperare la loro dimensione di persone autonome, persone in grado di riconoscere i propri bisogni indipendentemente dal figlio autistico. Questo non può ridursi ad uno sfogo con un parente o con un amico.
Questo ruolo deve essere affidato ad un terapeuta in grado di aiutare efficacemente la persona/la coppia a raggiungere l’adeguata lettura dei vissuti e conseguentemente riformularli per migliorarne la qualità della vita. Ritengo che in molti casi, oltre alla possibilità di aprirsi e chiedere aiuto, ci siano vicissitudini economiche che portano le persone a dovere a questa possibilità poiché aggravati dal sostenere i percorsi terapeutici.
L’auspicio è quindi quello di sollecitare una riflessione sia per chi riceve i servizi ma soprattutto per chi li eroga ricordando che la prevenzione psicologica è un diritto per tutti.
di Francesca Aneli – EmmeReports