“Sempre caro mi fu quest’ermo colle” scriveva Leopardi, una frase che noi palermitani possiamo fare nostra quando alziamo gli occhi su Monte Pellegrino, il “promontorio più bello del mondo”, come lo definì Goehte. Sacro e immobile custode della città dalla notte dei tempi, sia il Santuario che il belvedere sono mete facilmente e comodamente raggiungibili in auto o a piedi lungo i sentieri in mezzo alla natura. Era considerato un tempio di pietra e fu luogo, nel corso dei secoli, di culti diversi come testimoniano alcune tracce ritrovate in loco. Divinità puniche, elleniche, culto Mariano e infine Santa Rosalia, colei che divenne la Patrona della città, dopo averla liberata dalla peste, così come scrisse Pitrè “nessun umano rimedio era valso ad arrestarne il corso fatale… regnava desolazione e terrore… la Santa avea rivelato il luogo preciso dei suoi avanzi mortali… eran là dove ignota al mondo era spirata…”.
Al passaggio di quelle spoglie “…il male perdeva gravità e Palermo in breve fu libera”.
Per ogni palermitano devoto o meno che sia, la suggestiva grotta in cui visse Rosalia Sinibaldi, quella che tutti chiamiamo affettuosamente “A Santuzza”, suscita sempre emozioni difficili da spiegare. Ancora dopo quasi 400 anni la devozione, l’amore e la gratitudine per la “Santuzza” sono vivi più che mai e l’aria del “Festino”, che ricorre il 15 luglio, coinvolge tutti indistintamente. Quest’anno il clima sarà molto diverso a causa del Covid-19 che ha messo alla prova un’intera umanità, ma nonostante tutto e con un animo non completamente sereno, anche oggi Palermo mangerà i babbaluci. Sembra che il termine derivi dal greco “”boubalàkion” , ovvero bufalo a cui veniva paragonato il babbalucio anch’esso con le corna, termine storpiato dagli isolani in “buvalàci”. Altri sostengono che derivi dall’arabo “babush”, calzatura dalla punta ricurva che diventò “babbuccia” e probabilmente i due termini mescolati diedero origine a babbaluci. Al palermitano poco importa l’origine, poiché non vi è “Festino” senza avere a disposizione una contingente quantità di Babbaluci, accompagnati da birra “atturrunata” (ghiacciatissima) e per concludere una bella fetta di “mulune”, ovvero anguria, bella, rossa, succosa e preferibilmente fredda. Festino e Babbaluci sono elementi inscindibili e coloro che vogliono evitarsi la fatica di pulirli non devono fare altro che ricorrere al “babbaluciaro”, che espone in grandi pentole la mercanzia, odorosa di “agghia ‘ngranciata” (aglio soffritto) e prezzemolo. La raccolta dei babbaluci più piccoli e solitamente dal guscio chiaro avviene in estate, ancora meglio se dopo una giornata di pioggia, e non è per niente agevole perché i babbaluci prediligono aggrapparsi ai rovi e alle piante che non hanno resistito ai cocenti raggi solari di questa terra.
Il consumo di questi invertebrati sembra risalga al tempo dei Sicani, ma erano graditi anche a Greci e Romani, mentre nel Medioevo era il cibo ideale da consumare poiché si credeva apportassero beneficio al fegato. Nel 700 le lumache sparirono dalle tavole dei nobili e ricomparvero solo all’inizio dell’800 in occasione di un banchetto offerto allo Zar Alessandro I dal principe Talleyrand. Il culto del babbalucio palermitano, però, è unico così come lo è il modo per tirare fuori il gasteropode. Ogni anno il Foro Italico, il nostro lungomare cittadino, si riempie di bancarelle “gastronomiche” che vanno dal “semenzaro”, il venditore di semi di zucca, noccioline, mandorle e calia (ceci tostati) per le dentature più salde, al bibitaro, più fornito di un ingrosso di bibite. Seguono “u sfinciunaro” (venditore di sfincione), “u panellaro” (venditore di panelle e crocchè) e, infine, il protagonista indiscusso del Festino “u babbaluciaru”.
A quel punto, visualizzato il target, l’homo panormitanus acquista il suo piattino di babbaluci che ovviamente non sarà l’ultimo e ha finalmente inizio quel procedimento particolare e unico per gustare il mollusco terrestre. Se non precedentemente fornito di spillo o ago, il consumatore di babbaluci dovrà andare giù di canino per forarne il guscio, dopodichè effettuerà un poderoso “sucune”, ovvero risucchio, e il gioco è fatto. Purtroppo non è una parola molto elegante, ma per certi termini dialettali le traduzioni non rendono l’idea. Quest’anno le restrizioni a causa del Covid-19 non permetteranno di festeggiare come i palermitani vorrebbero, ma in ogni casa fedele alle tradizioni si consumeranno babbaluci e secondo un detto popolare visto che “Babbaluci a sucari e fimmini a vasari nun ponu mai saziari” (lumache da mangiare e donne da baciare non saziano mai), si accatasteranno sulle tavole piattini su piattini. Quando torneremo alla normalità, lungo il Foro Italico, oltre all’appetitosa fragranza dei babbaluci e dell’aglio, risuonerà il tipico concerto in “do…un bel sucune” perché più risucchio c’è prima si gusta il babbalucio. Se poi vi dovesse capitare di vedere qualcuno che secondo voi vi sta facendo l’occhiolino, non fateci caso perché si sta solo concentrando per calibrare bene la forza del canino sul guscio del babbalucio e, riuscito nell’intento, chiuderà anche l’altro occhio per gustare appieno quel sapore che non ha eguali.
E, come si suole dire, “Viva Palermo e Santa Rosalia!”
Buon Festino a tutti i Palermitani!
INGREDIENTI:
1 kg di lumache
1 testa d’aglio
1 mazzetto di prezzemolo
olio extravergine d’oliva
sale e pepe
PREPARAZIONE:
Mettere le lumache in un contenitore per due giorni. Trascorso questo tempo lavarle ripetutamente sotto l’acqua corrente fino a quando l’acqua non risulterà pulita. Porle in un tegame capiente coprirle d’acqua e chiuderle con un coperchio, cuocere a fuoco basso per qualche minuto e poi aumentare la fiamma. Continuare a cuocere per 15 minuti, quindi scolarle e metterle da parte. A parte, in un tegame basso e capiente, soffriggere l’aglio tagliato a pezzetti in abbondante olio e quando sarà imbiondito unire il prezzemolo, spegnere il fuoco, versare le lumache, salate e pepate a piacimento, mescolare e servire.
Di Monica Militello Mirto – EmmeReports