Fra le tante leggende isolane, una riguarda un ragazzo che amava tanto il mare da trascorrervi più tempo che sulla terraferma. Si chiamava Nicola (detto Cola) e apparteneva a una famiglia di pescatori messinesi. Un giorno la madre esasperata gli urlò: “S’un niesci ru mari, pisci tu possa addivintari” (se non esci dall’acqua, che tu possa trasformarti in pesce) e dopo qualche tempo il suo corpo si ricoprì di squame, i suoi arti si trasformarono in una sorta di pinne e nacque Colapesce, una creatura metà uomo e metà pesce che, secondo la leggenda, regge una delle tre colonne su cui poggia la Sicilia, quella danneggiata dal fuoco dell’Etna fra Messina e Catania, scongiurando il pericolo che la sua bella Isola possa inabissarsi nel Mediterraneo.
È lì, immerso da tempo immemorabile, in quel mare azzurro e pescoso che ha garantito la sopravvivenza di tante famiglie di pescatori come la sua. Pescatori che, ancora oggi nelle notti d’estate, escono in mare con le Lampare e seguendo una tecnica molto antica tirano in barca, oltre a calamari e altri tipi di pesce, anche considerevoli quantità di sarde che vengono considerate dono del mare. Secondo alcuni studiosi si attribuisce ad Aristotele il racconto secondo cui i sardi furono i primi a commercializzare un tipo di pesce salato che da essi prendeva il nome.
L’origine del piatto, però, nulla ha a che vedere con il mare bensì con il cielo, perché il Beccafico non nuotava, ma volava… Prima di cadere nelle mani dei cacciatori. Nel XIX secolo, infatti, i nobili siciliani erano dediti a diverse attività “ludiche”, fra cui la caccia al Beccafico, un piccolo pennuto simile alla Capinera che nel periodo estivo si nutre quasi esclusivamente di fichi maturi di cui è particolarmente ghiotto.
Viene menzionato anche in una parte del Satyricon di Petronio, “La cena di Trimalcione (o Trimalchione)” la cui disamina lascio agli esperti in tale materia. Trimalcione era un liberto considerato un parvenu dell’epoca ed era solito stupire i commensali che partecipavano alle sue opulente cene facendo presentare le portate in modi stravaganti. Proprio in una di queste fece il suo ingresso una cesta con sopra una gallina di legno posta sulla paglia che nascondeva uova di pavone. Non appena i servitori iniziarono a distribuire le uova, il padrone di casa avvertì gli invitati che esse contenessero dentro già “famiglia”, infatti uno dei partecipanti al banchetto, tolta la pastafrolla che ricopriva l’uovo trovò nel tuorlo pepato un saporito e grasso Beccafico.
Sebbene di modeste dimensioni, il Beccafico è infatti ben pasciuto e le sue carni sono particolarmente gustose e pregiate. Alla fine delle battute di caccia il bottino veniva portato dalla servitù nelle cucine e qui preparato dai Monsù, immancabili chef stellati dell’epoca al servizio della nobiltà, che provvedevano a farcire l’interno dei Beccafico con le loro stesse interiora e poi li cucinavano alla brace o arrosto. Gli appetitosi uccelletti venivano infine posti su vassoi e serviti allineati con le code all’insù per consentire una più comoda presa da parte degli aristocratici commensali che attendevano nelle vaste ed eleganti sale da pranzo, dalle pareti affrescate ed elaborati arazzi. Fra argenteria e calici in cristallo, i domestici portavano in tavola i Beccafico e probabilmente fu proprio per questo che anche in quella circostanza la proverbiale e fantasiosa inventiva sicula diede i suoi frutti.
Dato che le battute di caccia non erano di certo il passatempo delle classi più povere, dedite più che altro all’arte della sopravvivenza, il volatile venne sostituito dalla gustosa, un po’ grassa e nutriente sarda e la farcitura di interiora del Beccafico dalla mollica di pane (pangrattato), arricchita con uvetta e pinoli, attorno cui veniva arrotolato il piccolo pesce precedentemente diliscato e aperto a “libro”.
L’unica caratteristica rimasta invariata era soltanto la coda, infatti, così come nella preparazione più altolocata, anche in quella più popolare veniva lasciata all’insù. Il piatto così debitamente rielaborato prese il nome di sarde a Beccafico, che divenne nel tempo un’altra icona gastronomica rappresentativa della cucina tradizionale siciliana, meritando il riconoscimento ufficiale P.A.T. (Prodotti Agroalimentari Tradizionali italiani).
“I sardi a Beccaficu”, come ogni piatto regionale, sono soggette alle solite varianti a seconda delle diverse preferenze che cambiano da città in città, ma ovunque vengano preparate nulla viene tolto a una pietanza davvero squisita e, come le ciliegie, una sarda tira l’altra. Impareggiabile il sapore predominante e corposo del pesce che si lega perfettamente con la mollica leggermente salata e tostata, in cui uvetta e pinoli creano un connubio perfettamente equilibrato fra salato e dolce e la foglia di alloro posta fra una sarda e l’altra diffonde e dona un aroma raffinato e delicato.
Il tutto irrorato da olio di oliva e succo di limone è una vera delizia, l’apoteosi di un gusto tutto mediterraneo che soddisfa anche il palato più esigente e amante di quei piatti nati poveri, ma la preziosa e inestimabile ricchezza delle nostre meravigliose tradizioni.
INGREDIENTI:
1 kg di sarde
150 gr ca. di pangrattato
70 gr uva sultanina
50 gr di pinoli
Un cucchiaio di prezzemolo tritato
Foglie di alloro
sale, olio EVO e succo di limone
PREPARAZIONE:
Tostare leggermente il pangrattato, aggiungere un cucchiaio d’olio, il prezzemolo, l’uva sultanina e i pinoli, salare e pepare q.b. Disporre il ripieno su ogni sarda, precedentemente diliscata e aperta a libro e arrotolarla su sé stessa. Allineare gli involtini ottenuti, alternandoli con una foglia d’alloro, irrorare con olio, il succo di limone e cuocere al forno per circa 15-20 minuti.
Buon appetito!
Di Monica Militello Mirto – EmmeReports