È stato il primo italiano ad aver combattuto l’ISIS a fianco dei Peshmerga. Ha comandato una distaccamento della famosa e temuta Task Force Black, i Reparti Speciali della polizia militare curda. Alex Pineschi è un ex alpino che prima di partire per la guerra ha lavorato nelle navi come contractor in missioni antipirateria. La sua storia parla di coraggio, di avventura, di sostegno ad un popolo, quello curdo, da secoli martoriato. Ad EmmeReports ha raccontato la sua incredibile esperienza che, per cinque anni, dal 2014 al 2019, lo ha visto protagonista nella lotta al terrorismo.
Sei un soldato, un guerriero o un mercenario?
Sono stato un soldato, sono un guerriero, lo ero prima, lo sono oggi e lo sarò per sempre. Non sono stato mai un mercenario. Non l’ho mai fatto per soldi. Non sono mai stato pagato per le attività di combattimento. Le attività sul campo le ho sempre esercitate a titolo esclusivamente volontario. Quando rientrai dopo il primo turno di diciotto mesi, come è giusto che sia, le Istituzioni fecero delle indagini atte a chiarire la mia posizione in Iraq. Io all’epoca mi misi a disposizione del Pubblico Ministero, il quale mi interrogò sui fatti, ed io misi a disposizione me stesso per fare chiarezza sulla vicenda, mostrando anche documenti e prove riguardanti la mia attività: dopo quattro mesi il fascicolo fu chiuso. Quattro mesi di indagine che si conclusero con una pacca sulla spalla da parte del Pubblico Ministero che archiviò il caso poiché non sussisteva. I fatti hanno dimostrato che io in Iraq ero un volontario e che non venivo retribuito per combattere, ma solo per formare e addestrare i Peshmerga curdi. Ho scelto di combattere sotto la mia responsabilità pagandomi di tasca mia con i pochi risparmi a disposizione l’equipaggiamento e le attrezzature necessarie.
Quindi inizia la tua esperienza con i Peshmerga.
Ho iniziato la mia avventura partendo da zero. I Peshmerga all’inizio erano molto diffidenti nei miei confronti, per tale motivo mi hanno fatto fare la gavetta. Ma volevo dare il mio supporto sfruttando le mie capacità professionali. Ho fatto questa vita per circa sei mesi, in condizioni di vita per noi occidentali assurde, come dormire al fronte in tanti e in case semidistrutte e mangiare quando era possibile. È stata veramente dura! Quindi mi hanno proposto di addestrare i Peshmerga. Un compito molto difficile. Dovevo spiegare le tecniche di combattimento a dei veterani di guerra, molti di loro con 15 anni di servizio sul campo e non era facile farsi prendere sul serio! Dovevo farmi rispettare senza avere ancora dimostrato la mia abilità in combattimento. E nella loro cultura non importa il grado che porti sulle spalline, ma il valore che dimostri in battaglia. Io li istruivo nei campi di addestramento, poi loro uscivano in operazioni militari e, spesso, molti di loro restavano feriti o uccisi tornando nei sacchi neri. Come potevo impormi su questi guerrieri stando in base al sicuro, mi domandavo. Chiedevo ogni giorno al capitano Peshmerga di mandarmi fuori insieme ai miei uomini, ma ricevevo sempre risposte negative, anche perché per il popolo curdo lo straniero è sacro e temevano per la mia incolumità. Ma dovevo guadagnarmi la loro fiducia, dimostrare loro che quello che gli stavo insegnando aveva un impatto nelle operazioni reali. Continuavano a morire tantissimi Peshmerga. C’era bisogno di tutti gli uomini possibili. Per tale motivo il capitano ha deciso, finalmente, di darmi la possibilità di uscire con i miei uomini. In brevissimo tempo mi ritrovavo ad applicare sul campo quello che insegnavo in addestramento, organizzando la mia squadra che seguiva scrupolosamente le mie disposizioni. Rientrati in base i miei stessi uomini hanno poi chiesto al capitano di lasciarmi con loro come leadership, come quell’uomo in più che poteva coordinare sul terreno le operazioni. Io avevo lasciato il mio Paese e i miei affetti per aiutarli a combattere un nemico che sarebbe potuto arrivare a casa mia, cosa che mi ha procurato tante critiche. Credevo veramente che l’ISIS potesse arrivare in Italia, sono partito veramente con l’intenzione di combattere per l’umanità e per il mio Paese! Ho scelto di combattere al fianco dei Peshmerga, perché erano loro che combattevano contro Daesh, mi sono innamorato della loro storia, di un popolo oppresso, delle donne combattenti curde. Quindi continuavo ad addestrare il personale, uscivo ogni tanto, ma ai miei uomini mancava quella figura che li coordinava nelle diverse tipologie di combattimento che insegnavo loro.
Chi comandavi nello specifico?
Ho comandato il distaccamento D della Task Force Black e in particolare il team controterrorismo. Successivamente ho formato le unità elitrasportate sempre del team SWAT antiterrorismo. Quindi oltre che il ruolo di comando di queste Unità speciali avevo anche gli incarichi di formazione e gestione delle Unità stesse.
Un’esperienza che ti è rimasta più impressa di altre?
La cosa che mi ha fatto più male è stato l’attacco dell’ISIS a Kirkuk. Nell’ottobre 2016, quando è iniziata l’offensiva di Mosul, tutte le truppe erano lì concentrate. Quindi le cellule dormienti dell’ISIS a Kirkuk, ne hanno approfittato per sferrare un attacco combinato a 22 edifici, sia civili che governativi. Quando abbiamo liberato la scuola presa d’assalto dai terroristi di Daesh, l’abbiamo riconsegnata ai bambini della città.
Facevate prigionieri?
Come unità della polizia militare Peshmerga, abbiamo sempre rispettato le convenzioni internazionali. Chi si prefigge di tutelare la vita umana, come un cane da pastore o un guerriero moderno, ha come obiettivo la tutela della vita umana. Anche quella dei cattivi. Io vedo l’uso delle armi come extrema ratio. Ad ogni modo, il diventare prigionieri nella mente del terrorista non è contemplabile. Durante gli attacchi erano tutti imbottiti di esplosivo. Nessuno di loro programmava di diventare un prigioniero. Quindi preferivano farsi saltare in aria piuttosto che cadere nelle nostre mani. Il combattente dell’ISIS va in battaglia sapendo già di essere morto, rendendoli più temibili e motivati. La loro chiave di forza è sempre stata la motivazione.
L’Italia fa abbastanza nella lotta al terrorismo islamico?
Il nostro Paese ha fatto veramente tanto in supporto ai Peshmerga curdi, cosa che loro hanno apprezzato parecchio, considerando il contingente italiano uno dei migliori.
Quanto è pericoloso stare in un teatro di guerra?
Il fatto di stare in un teatro operativo espone i militari a dei rischi che fanno parte dell’ambiente dove si va a lavorare. A prescindere che uno partecipi o no a operazioni di combattimento è comunque pericoloso.
L’ISIS è stato definitivamente sconfitto?
Non si può parlare di sconfitta di Daesh. L’ISIS non è a tutti gli effetti un’organizzazione terroristica. L’ISIS è un sogno, una visione, un’ideologia. Non si può dunque uccidere tutto questo con i missili. Daesh è un sogno di tutti quegli estremisti che oggi continuano a desiderare questo mondo. Non si può sconfiggere un’ideologia. Durante l’ultima offensiva in Siria, le donne dell’ISIS ci dicevano che nelle loro pance c’era il futuro dell’ISIS. “Voi ci arrestate, ma nei campi profughi, dove ci porterete, nascerà il futuro di Daesh!”. Non bisogna abbassare la guardia. Le potenziali cellule dormienti, possono arrivare benissimo con le ONG, mischiati ai migranti, come è possibile che siano già fra noi. Il nostro vicino di casa potrebbe essere un potenziale simpatizzante Daesh.
Pensi di ritornare in combattimento?
Nella vita di uomo ci sono dei cicli. Credo che il mio ciclo laggiù insieme ai Peshmerga sia terminato. Sono felice di avere dato il mio contributo, per cinque anni, nella lotta al terrorismo. Ho sempre vissuto per questa missione. Oggi cerco di mettere a frutto le esperienze vissute al servizio del settore della sicurezza, quindi attraverso la mia associazione, l’AP-TAC, cerco di organizzare degli eventi, degli stage, dei seminari aperti a tutti, per cercare di dare il mio contributo e di condividere la mia esperienza, nel contrasto al terrorismo.
Il mio obiettivo è quello di sviluppare delle tecniche, delle procedure, che possano essere efficaci per chi oggi tutela la sicurezza dei cittadini. Ci sono tanti operatori del settore che vogliono acquisire il loro bagaglio tecnico.
Di Francesco Militello Mirto – EmmeReports
Foto AP-TAC